Padre Giuseppe Vallarino, Cappellano del Battaglione Pieve di Teco

Fu Cappellano del Battaglione Pieve di Teco, 1° Reggimento Alpini, Divisione Cuneense, Don Giuseppe Vallarino, che seguì il “suo” reparto di Penne Nere tra le steppe innevate dello sconfinato territorio russo. Era nato ad Albenga nel 1914 e fin da ragazzo aveva coltivato l’idea di prendere i voti, seguendo una missione spirituale che si sentiva crescere dentro: con i Frati Minori venne ordinato Sacerdote ed assegnato, con il grado di Tenente, a quel reparto di Alpini che non lascerà mai più, condividendone le gioie e le sofferenze per tre lunghi anni di guerra. Don Giuseppe, infatti, lo seguì in Grecia, dove centinaia di giovani suoi coetanei caddero negli aspri combattimenti sulle alture della Vojussa, del Mali Scindeli, di Klisura. E il loro Cappellano, Penna Nera tra le Penne Nere, era sempre pronto e disponibile a raccogliere un’ultima confessione, un’ultima preghiera, un’ultima lettera da spedire a casa alle famiglie lontane. Anche quando si andò costituendosi l’ARMIR, quella Armata Italiana in Russia, il Battagline Pieve di Teco, così come l’intera Divisione Alpina Cuneense, Don Ggiuseppe partì senza indugio, con la tradotta verso l’oriente, tanto misterioso, quanto mortale.

Distinguendosi sempre per la sua costante presenza sulla prima linea del fronte, dove più vi era bisogno della sua assistenza spirituale, Giuseppe Vallarino fece di quella croce ricamata sulla divisa grigio-verde una vera e propria missione. Anche quando, nel dicembre 1942, l’Armata Rossa scatenò l’offensiva lungo l’intera ansa del Don, che costringerà i reparti italiani ad una faticosa e mortale marcia all’indietro, a piedi, ritirandosi per centinaia di chilometri nella steppa, con l’unico obiettivo di rientrare in Italia. Tra il 17 e il 23 gennaio 1943, sotto un incessante fuoco di mortai e artiglieria sovietica, gli Alpini del Pieve di Teco si ritrovarono circondati tra Selijakino e Ossadtschij: presto spraffatti, i pochi superstiti riuscirono a rompere l’accerchiamento e a ricongiungersi al grosso delle colonne italiane in rotta. Molti di loro, soprattutto i feriti e i congelati, coloro che non poterono più continuare la marcia, vennero catturati e fatti prigionieri, dando inizio ad una nuova marcia mortale, questa volta verso i campi di prigionia. Tra costoro vi fu anche Don Giuseppe, che, non volendo lasciare al proprio destino i moribondi, rimase loro accanto anche nei momenti più drammatici. Da quel momento, tutto quello che giunse in Italia dei suoi ultimi istanti di vita si deve al ricordo di qualche Alpino che ebbe la fortuna di tornare in Italia a fine guerra. Con un grave principio di assideramento a braccia e mani, stremato dalla fatica, si spense nei pressi di Orlanki, nei dintorni di Mosca, in una data imprecisata del marzo 1943.

A Don Giuseppe Vallarino, a conflitto ormai concluso, venne conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria, mai dimenticato da quegli Alpini che, con ogni mezzo e con la forza della disperazione, aveva contribuito a salvare e a confortare: “Cappellano Militare di Battaglione Alpino, già distintosi per elevato senso del dovere in aspri cicli operativi, durante un prolungato tormentoso ripiegamento, nonostante il gelo e la tormenta, il nemico da ogni parte incalzante e l’assillo delle distanze, fu sempre esempio di serenità agli Alpini. In ripetuti aspri combattimenti, con ammirevole sprezzo del pericolo, si portava tranquillo e impavido laddove era necessaria la sua presenza per soccorrere i combattenti e mantenere elevato lo spirito. Colpito da gravi sintomi di congelamento alle mani, mai trascurò la sua missione. Dopo la cattura, nelle faticose marce per raggiungere i campi di concentramento, incurante delle sue atroci sofferenze a causa del gelo, infondeva animo ai superstiti. Aggravatosi, decedeva in prigionia col pensiero rivolto ai suoi Alpini coi quali aveva diviso in tormenti. Fronte Russo, 17-26 gennaio 1943″.

Danilo Stiepovich a bordo del Sommergibile Cappellini

Quel 14 gennaio 1941, in qualità di Direttore di Macchina, il Tenente del Genio Navale Danilo Stiepovich si trovava in missione di guerra nell’Oceano Atlantico, a bordo del Sommergibile Cappellini, allora comandato da colui che diverrà una leggenda per l’intera Marina Militare Italiana: il Capitano di Corvetta Salvatore Todaro. Il battello e l’equipaggio erano salpati dalla base atlantica di Bordeaux il precedente 22 dicembre 1940, per quella che si sarebbe rivelata una missione ricca di successi, ma anche di dolore. Non passò molto tempo, infatti, che l’anno nuovo iniziò sotto i migliori auspici: il 5 gennaio, il Comandante Todaro riuscì ad affondare, con il cannone e con i siluri, il Piroscafo Armato Shakespeare, di oltre cinquemila tonnellate di stazza, battente bandiera britannica. Cadde un giovane marinaio, addetto al cannone, colpito da alcune schegge, il Fuochista Giuseppe Bastoni, decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla Memoria: “Addetto alle artiglierie di un sommergibile atlantico impegnato in aspro combattimento in superficie contro un piroscafo armato nemico, partecipava all’azione con slancio e ardimento. In seguito ad avaria alla noria del suo pezzo, si prodigava nel rifornimento a mano delle munizioni, consentendo così la continuazione del fuoco. Colpito da scheggia di granata nemica, cadeva da prode al suo posto di combattimento. Oceano Atlantico, 5 gennaio 1941”. E con quello stile che contraddistinse sempre uno dei migliori comandanti di sommergibili italiani, Salvatore Todaro trasse in salvo da una scialuppa in procinto di affondare i ventitré nauraghi di Sua Maestà e, con grave rischio, dopo averli ospitati a bordo, li fece sbarcare in tutta sicurezza su una delle isole dell’Arcipelago di Capo Verde: un uomo d’altri tempi, questo era Salvatore Todaro, per il quale l’onore e il rispetto dell’avversario sconfitto venivano prima della sua stessa vita.

Appena nove giorni dopo, incrociando nelle medesime acque al largo delle coste africane, poco distante dalle Isole Canarie, un nuovo sbuffo all’orizzonte fece palesare alle vedette la nuova preda. Con i motori al massimo, il nuovo bastimento venne raggiunto: furono lanciati due siluri, evitati dal mercantile con rapide accostate. Ne nacque un epico duello combattutto con il cannone, al termine del quale il grande sudario del mare, in un fremente gorgoglio di schiuma e onde, si richiuse inesorabile sulle 7472 tonnelate dell’Eumaeus. Ma questa volta, anche a bordo del Cappellini la lotta aveva lasciato i suoi segni. E le sue vittime. Scrisse lo stesso Comandante Todaro nel suo rapporto di fine missione: “Numerosi colpi esplodono presso il sommergibile, lanciando le schegge in coperta e ferendo gli armamenti dei pezzi. Il piroscafo, sebbene presenti un bersaglio notevolmente ristretto, viene ripetutamente colpito sia in plancia sia nelle vicinanze dei cannoni, i cui armamenti sono mantenuti sotto il tiro micidiale delle mitragliere del sommergibile”. E ancora più avanti, nel medesimo rapporto: “Alle ore 09.50 e alle 09.55 rispettivamente due grante colpiscono la torretta del sommergibile ferendo l’armamento delle mitragliere e asportando la gamba sinistra al Tenente Direttore di Macchina Danilo Stiepovich, che aveva da poco sostituito un marinaio ferito. Detto Ufficiale, sentendo prossima la fine chiede solo di poter assistere all’affondamento della nave nemica”.

Triestino di origine, veterano delle campane in Etiopia e in Spagna, il giovane Danilo Stiepovich, spirò poche ore dopo nella piccola infermeria del Cappellini, durante la navigazione che di li a poco avrebbe condotto l’equipaggio al Porto di La Ruz, a Gran Canaria, dove il Sommergibile avrebbe rifornito per riprendere il mare e riparare le avarie occorse durante il combattimento. Pochi istanti prima di esalare il suo ultimo respiro, il Tenente Danilo Stiepovich chiese di poter stringere a sé lo stendardo del Sommergibile. Venne decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Imbarcato su di un sommergibile atlantico, durante aspro e lungo combattimento contro un incrociatore ausiliario, prendeva volontariamente il posto di un puntatore di mitragliera ferito. Gravemente mutilato dallo scoppio di una granata nemica, rifiutava ogni soccorso per non distogliere dal suo compito il personale impegnato nel combattimento e chiedeva soltanto di poter assistere all’affondamento della nave avversaria. Ultimata vittoriosamente l’azione, mentre l’unità era fatta segno a violento attacco aereo, continuava ad incitare l’equipaggio e spirava serenamente dopo lunghe sofferenze sopportate stoicamente. Magnifico esempio di altissime virtù militari. Oceano Atlantico, 14 gennaio 1941“.

La Stella Rossa sul mare. La Marina Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale

Tutte le storie hanno un loro inizio. E anche quella raccontata da Gabriele Bagnoli in La Stella Rossa sul mare, saggio dedicato alla Marina Militare Sovietica nel secondo conflitto mondiale ha il suo. E ha inizio con la nomina a Commissario del Popolo della Flotta Rossa degli Operai e dei Contadini di Nikolay Gerasimovic Kuznecov, nell’aprile 1939: compito arduo quello venne affidato direttamente da Josif Stalin ad un ufficiale poco più che trentenne. Ossia quello di creare una grande flotta oceanica, risollevarla dagli anni bui della Prima Guerra Mondiale, della guerra civile e delle purghe della seconda metà degli Anni Trenta, che decapitarono moltissimi vertici delle forze armate. Di più: la nuova flotta rossa avrebbe dovuto competere sui mari e sugli oceani con le loro controparti europee, in primis la Royal Navy inglese e la Kriegsmarine tedesca, ma anche con la United States Navy e con quella giapponese. Con quest’ultima, poi, la cocente sconfitta della flotta zarista di Tsushima, nel 1905, era ancora forte e viva, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle gerarchie militari. Questo racconta il libro di Gabriele Bagnoli: di come un uomo, Nikolay Kuznecov, tentò di risollevare quella marina che, negli della Guerra Fredda, diverrà quella Sovyetsky Voenno Morskoj Flot che contenderà sul mare il predominio alla sua controparte americana. Ma le basi di quella potenza navale andranno ricercate proprio nella riorganizzazione intrapresa dall’Ammiraglio Kuznecov, riorganizzazione e modernizzazione bruscamente interrotte dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Fu proprio con il secondo conflitto mondiale che la nuova Marina Sovietica di Nikolay Kuznecov ebbe la sua prova più grande: divisa in quattro flotte (quella del Baltico, del Mar del Nord, del Pacifico e del Mar Nero), cui si aggiungevano flottiglie minori lacustri e fluviali, dove non arrivarono i mezzi, sopperirono gli uomini con il loro coraggio. E spesso con la vita. Sono, infatti, gli ufficiali, i sottufficiali e i semplici marinai ad essere ricordati in La Stella sul mare: come ricorda l’autore stesso nelle pagine del libro, il lettore non troverà lunghi elenchi di navi, dettagli costruttivi di incrociatori e cacciatorpediniere, nozioni tecniche su calibri e gittate dei cannoni, bensì i nomi e i cognomi di quanti affrontarono in combattimento i Tedeschi, i Rumeni, i Finlandesi e gli Italiani dei MAS sul Lago Ladoga e sul Mar Nero. Ecco, dunque, la vera finalità del libro: vuole essere la voce dei protagonisti, narrare le loro storie e le loro azioni, dare un nome e cognome a quegli uomini di mare che, spesso, donarono la loro stessa vita. Cercare di colmare un vuoto, dunque. Sicuramente questo volume c’è riuscito solo in parte, perché tanto altro è ancora da scrivere e da far conoscere al pubblico degli appassionati di storia militare e dei ricercatori del secondo conflitto mondiale in merito alla Flotta Rossa dell’Ammiraglio Kuznecov. L’augurio dunque è che questo lavoro faccia da apripista e dia impulso a nuove e ulteriori ricerche.

Perché la vittoria, per gli Alleati Anglo-Americani e Sovietici, passò, anche e soprattutto, dal mare: ma non soltanto dal Mar Mediterraneo, dall’Oceano Atlantico e dall’Oceano Pacifico. Passò, infatti, anche dal Mar Nero, dove parallelamente alla flotta di Mosca intere pagine di eccezionale eroismo vennero scritte da un manipolo di marinai italiani al comando di Francesco Mimbelli. E ancora dai Laghi Onega e Ladoga, dalle fredde acque del Mar Baltico e dal Mare Artico, dai corsi dei Fiumi Dnepr e Danubio, per giungere fino alle piccole isole dell’Arcipelago delle Curili, situate all’estremo nord-orientale della Penisola della Kamchatka. Oggi, Nikolai Gerasimovic Kuznecov è considerato dai Russi uno degli uomini più importanti della loro Storia, nonché “padre” della Marina moderna. Alla sua memoria è stata intitolata l’Accademia Navale di San Pietroburgo, nonché l’attuale nave ammiraglia della Voenno Morskoj Flot: la Portaerei Admiral Flota Sovetskogo Soyuza Kuznecov che, con le sue oltre 58.600 tonnellate di dislocamento e i suoi oltre trecento metri di lunghezza, è una delle più grandi al mondo. E, forse, è stato questo il suo lascito più importante: aver aperto il dibattito affinché anche l’Unione Sovietica si dotasse di unità portaerei, fondamentali per ogni potenza che ambisca a giocare un ruolo da protagonista sui mari e sugli oceani.

Francesca Del Rio, Staffetta partigiana a Reggio Emilia

In ordine temporale, la Medaglia d’Oro al Merito Civile a Francesca Del Rio è stata l’ultima ad essere conferita agli uomini e alle donne della Resistenza italiana, che combatté contro i Tedeschi e gli Italiani della Repubblica Sociale Italiana. Lei, che era impegnata in qualità di Staffetta Portaordini presso la 144^ Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, dovette scontare un lungo periodo detentivo nelle carceri di Ciano d’Enza, in provincia di Reggio Emilia, dove subì violenze e torture, al solo scopo da farla parlare e tradire i suoi compagni di lotta. Ed è la motivazione dell’onorificenza, conferitagli postuma dal Presidente della Repubblica (Francesca Del Rio è intanto deceduta nel 2008), che riporta alla mente tutta la drammaticità del conflitto e della guerra civile, forse la peggiore che possa colpire una Nazione, che insanguinò tutta l’Italia: “Giovane donna, aderì alla Resistenza impegnandosi come staffetta, per acquisire informazioni sugli spostamenti delle truppe tedesche. A seguito di delazione venne catturata da un gruppo di militari tedeschi e portata in carcere, dove sopportò indicibili sevizie, torture e mutilazioni, senza mai rivelare i nomi dei suoi compagni. Riuscì a fuggire dalla prigionia e nonostante i patimenti subiti, pur essendo in avanzato stato di gravidanza, continuò a operare nella Resistenza. Mirabile esempio di eccezionale coraggio e di straordinario impegno per i valori della libertà e della democrazia. Territorio di Reggio Emilia, 1944-1945“.

Nome di Battaglia Mimma, Francesca Del Rio aderì fin dall’indomani dell’8 settembre 1943 alla lotta partigiana: all’epoca aveva appena diciotto anni e in lei lo spirito antifascista era più vivo che mai. Il padre, infatti, comunista, aderì fin da subito al nuovo partito fondato da Antonio Gramsci dalla scissione, avvenuta nel 1921, dal Partito Socialista: e per questo pagò, sulla sua pelle, quella scelta, venendo aggredito da una squadra fascista dieci anni più tardi, nel 1935, non riprendendosi mai più pienamente dalle percosse subite. Era del tutto naturale, pertanto, per Francesca, aderire ai primi nuclei resistenziali organizzati: con la 144^ Brigata Garibaldi opererà in Val d’Enza, tra Parma e Reggio Emilia, portando ordini e messaggi segreti alle varie brigate presenti nella zona. Lei stessa ebbe modo di raccontare quei giorni, in una delle poche testimonianze rilasciate: “Il mio lavoro consisteva nel portare e ricevere ordini dai vari gruppi di organizzazione da San Polo a Barco, Montecchio e Reggio Emilia. Molte volte fui fermata, perquisita e anche schiaffeggiata ma non riuscirono mai a trovarmi addosso qualcosa di compromettente, così si limitavano a dirmi di tornare a casa e non uscirne. Io naturalmente uscivo continuamente anche di notte, per scortare carichi di munizioni e armi che dovevano giungere ai partigiani sulle montagne reggiane”.

La sua attività, però, fu interrotta l’11 dicembre 1944 quando venne arrestata, su delazione, da elementi Tedeschi e della 79^ Legione della Guardia Nazionale Repubblicana, responsabile, un mese prima, della strage di Legoreccio, dove vennero uccisi diciotto partigiani della 144^ Brigata. Sorpresi durante la notte da una pattuglia italo-tedesca nei pressi di Casalecchio, ebbe inizio un duro scontro a fuoco, dove alla fine, i partigiani furono costretti ad arrendersi. Nonostante le raccomandazioni di avere salva la vita, quasi tutti i catturati vennero immediatamente passati per le armi dagli uomini della Guardia Nazionale Repubblicana, mentre i commissari politici e i comandanti vennero trasferiti per interrogati presso Ciano d’Enza, salvo essere uccisi nei giorni seguenti. E quando toccò a Francesca Del Rio varcare le porte del carcere, sapeva che sarebbe stata dura. I suoi carcerieri non la risparmiarono dalle torture nonostante fosse in evidente stato di gravidanza. Con una forza d’animo incredibile, resse alle percosse e alle violenze, senza rivelare nulla sugli altri appartenenti alla 144^ Brigata. Un mese dopo il suo arresto, il 9 gennaio 1945, la fuga: fuggendo da una piccola finestrella in un locale adibito a latrina per gli arrestati, vagò nella neve, ferita e sanguinante, riuscendo a raggiungere una famiglia di conoscenti, prima di riunirsi ai suoi compagni d’arme nei pressi di Vetto. Il 10 aprile 1945, quando ormai i Tedeschi erano definitivamente in rotta, fu tra le prime ad entrare a San Polo d’Enza, alla testa di un corteo di Partigiani in armi.

Sopra la testa le onde: storie di sommergibilismo e di guerra

“Ufficiale di bordo di un sommergibile posamine, durante un’ardita missione svolta in prossimità di base nemica e conclusasi con la posa di uno sbarramento, dimostrava sereno coraggio e sprezzo del pericolo e contribuiva con perizia a sormontare gravi difficoltà causate da avarie al materiale. Mediterraneo Orientale, 7-22 ottobre 1940”. Fu a bordo del Sommergibile Zoea che l’allora Tenente del Genio Navale Giovanni Galantino si guadagnò la Croce di Guerra al Valor Militare in una delle numerose missioni cui il battello della Regia Marina fu chiamato ad assolvere: stendere, senza essere scorto dalle unità della Royal Navy, un campo minato di fronte la munitissima base navale di Haifa, nelle stesse acque in cui, in una missione identica e quasi contemporanea, scompariva il Sommergibile Foca, presumibilmente incappato in una delle tante mine disseminate forse dagli Inglesi o dagli Italiani stessi. Con il Foca, scomparvero sessantanove uomini, tra cui il Comandante, Capitano di Corvetta Mario Ciliberto. E oggi quelle imprese, che a più di ottanta anni di distanza hanno quasi dell’incredibile, rivivono in un libro, Sopra la testa le onde, scritto da Giovanni Patini, dopo aver raccolto e ordinato i racconti proprio del Tenente Galantino, suo nonno, in un’opera che riunisce, come ricordato anche dall’autore stesso, sia il saggio storico, sia il racconto, quasi una sorta di diario personale per la prima volta dato alle stampe.

1. Sopra la testa le onde nasce con uno scopo preciso: tramandare alle generazioni future quanto fatto in guerra dai nostri nonni, per preservarne la memoria. E il ricordo. Non è così?
Sì, è proprio così, anche se in realtà ho iniziato a scrivere le prime righe su richiesta delle mie sorelle e dei miei cugini: di otto nipoti sono io infatti quello che ha avuto la fortuna di trascorrere più tempo con il nonno e di ascoltare i suoi racconti sulla sua vita in Marina. Dopo aver scritto solo alcuni dei racconti contenuti nel libro, mi è stato chiesto di aggiungere un po’ di spiegazioni per poterli meglio comprendere e da lì sono partite le mie ricerche, che mi hanno portato non solo a trovare una collocazione spazio temporale agli eventi, ma anche a ricollegare tra loro altri spezzoni di memoria, che mi hanno consentito di arrivare ai dieci racconti che il libro raccoglie. E così ne è uscito qualcosa che è un po’ un saggio e un po’ una raccolta di racconti e che spero tramandi alle prossime generazioni le storie del passato, che hanno messo in luce al tempo stesso la follia della guerra ed il valore dell’amore per la patria. E magari qualche giovane, dopo aver letto il libro, andrà ad approfondire la storia della Seconda Guerra Mondiale e scoprirà le gesta eroiche che distinsero la Marina Italiana. Devo ammettere che il lavoro di ricerca è stato molto avvincente, come una caccia al tesoro intrapresa con pochissimi indizi iniziali: i nomi dei sommergibili sui cui era stato imbarcato il nonno, la sua Croce di Guerra e pochissimo altro. Purtroppo mia nonna, ancora viva quando ho iniziato a scrivere il libro, non era più in grado di fornirmi informazioni, ma quando si è spenta, nel luglio 2020, ho trovato in casa sua alcuni documenti che mi hanno molto aiutato nella ricostruzione degli eventi. Un prezioso supporto mi è stato fornito anche dall’Ufficio Storico della Marina, che mi ha inviato le copie di alcuni documenti fondamentali, e gli amici dell’Associazione BETASOM, che mi hanno dato alcuni preziosi consigli tecnici marinari.

2. Giovanni Galantino fu ufficiale sul Sommergibile Zoea, uno dei pochi sopravvissuti alla guerra. Quale furono le sue esperienze nel teatro del Mediterraneo?
Galantino fu ufficiale su diversi sommergibili, ma sicuramente lo Zoea era quello a cui era più legato, perché vi aveva trascorso il periodo di guerra più lungo in qualità di Direttore di Macchina. Le missioni a cui Galantino prese parte furono in totale undici, tra il 1940 ed il 1941: una di agguato, una di minamento, una di pattugliamento, due di trasferimento e sei di trasporto materiale. Molte miglia percorse in un Mar Mediterraneo che nelle prime settimane di guerra sembrava un immenso deserto d’acqua, mentre già dopo pochi mesi era infestato di insidie che giungevano dal mare e dal cielo. In effetti, il corpo dei Sommergibilisti è quello che in percentuale ha subito il maggior numero di vittime durante la guerra ed è molto semplice spiegarne il motivo: quasi sempre la perdita di un battello significava la morte dell’intero equipaggio. Galantino, che apparteneva al Genio Navale, ebbe la fortuna di essere impiegato in missioni solo durante il primo anno di guerra, per poi essere destinato alla Scuola di Pola come Ufficiale Istruttore e successivamente all’Arsenale di Taranto per occuparsi della costruzione di nuove unità.

3. Non solo racconti di guerra, ma Sopra la testa le onde narra anche di episodi di normalità a bordo di unità della Regia Marina. Uno spaccato, questo, che raramente si trova in altri libri…
Confermo: i miei non vogliono essere racconti di guerra, ma racconti durante la guerra. Certo, la missione di minamento o il bombardamento subito riportano azioni belliche, ma credo che, quando da piccolo il nonno mi narrava delle sue avventure, fosse soprattutto per raccontarmi delle curiosità, spesso divertenti, che nascondevano completamente la drammaticità degli eventi. D’altra parte il racconto del libro a cui probabilmente sono più legato è quello dal titolo Salami, topi ed altre storie, che raccoglie piccoli episodi di normalità, da cui si comprende che la vita a bordo non significava solamente missioni di guerra. Aggiungo che mi è piaciuto scoprire che durante i suoi imbarchi nessun sommergibile ha lanciato siluri né causato vittime. Solo in una delle prime missioni sono state impiegate le mine, la cui posa ha peraltro creato molto più pericolo per il sommergibile stesso che non per il nemico.

4. Alla fine del conflitto, Giovanni Galantino lasciò la Marina. Come fu la sua vita in “borghese”?
All’inizio del 1947 Galantino diede l’addio alla vita militare e si trasferì a Reggio Emilia, dove esercitò brillantemente la professione di ingegnere, sia come dirigente d’azienda sia come libero professionista. I primi anni a Reggio, provincia dilaniata nel primo dopoguerra dal conflitto sociale, furono molto difficili. Il clima era avvelenato dalla politica e Galantino, dirigente delle Officine Greco, fu spesso bersaglio degli attacchi dei sindacati e delle pagine locali de L’Unità. Nel 1952 ricevette addirittura una minaccia di morte. Ciononostante fu sempre molto stimato, tanto per le sue competenze quanto per il suo rigore morale: in altre parole è sempre rimasto l’ufficiale di marina che era, anche indossando gli abiti civili da ingegnere.

L’affondamento della Portaerei Shokaku

Oggi, è uno dei tanti sommergibili musealizzati, visitabili in varie parti degli Stati Uniti d’America, silenziosi testimoni di una guerra altrettanto silenziosa, combattuta nelle profondità dei mari e degli oceani, fatta di lunghe attese, attacchi rapidi e invisibili e altrettanto rocambolesche immersioni rapide per sfuggire alla caccia delle unità di superficie. Così, a Galveston, nello stato americano del Texas, è possibile salire a bordo dell’USS Cavalla, uno dei settantasette battelli che andarono a costituire la Classe Gato, lunghi poco meno di un centinaio di metri ma allo stesso modo letali. L’USS Cavalla, infatti, nonostante un’attività bellica piuttosto limitata (entrò in servizio solo nella seconda metà del maggio 1944 dopo un periodo di prova a Pearl Harbour), inferse tuttavia importanti colpi mortali alla Marina Imperiale Giapponese, colando a picco numerose unità, tra cui una portaerei e diversi mercantili, adibiti al trasporto di rifornimenti. Al comando del Lieutenant Commander Herman Joseph Kossler, il 17 giugno 1944 fece rotta verso una grossa formazione navale nemica: ebbe inizio un inseguimento che si prolungò per diverse ore, dove ogni minimo rumore avrebbe potuto far scoprire il sommergibile americano alle unità di ricerca. Queste, infatti, facevano parte di una più vasta formazione che avrebbe preso parte qualche giorno dopo alla Battaglia del Mar delle Filippine: intercettate, non restò al Comandante Kossler che portarsi nella posizione ottimale per il lancio dei suoi siluri. L’obiettivo principale contro cui lanciare erano le portaerei: affondarle, avrebbe privato i Giapponesi di intere formazioni di caccia e aerosiluranti imbarcati, oltre che privare il Sol Levante delle ultime portaerei ancora pienamente operative.

Ma più passavano le ore e più il rischio di essere individuati aumentava. E infatti avvenne. Improvvisamente, mentre osservava la formazione nemica al periscopio, Herman Kossler si accorse che due cacciatorpediniere si erano staccati dal gruppo principale e, rapidi, puntavano dritti verso di lui. Dando ordini chiari e precisi, l’USS Cavalla iniziò una repentina discesa in quota per sfuggire alle due navi di superficie, mentre tutto attorno le esplosioni delle cariche subacquee facevano tramare lo scafo e l’equipaggio al suo interno. Solo nella tarda serata del 17 giugno, Kossler poté riemergere: deluso e amareggiato per essere stato costretto a rinunciare a prede tanto allettanti per qualsiasi comandante di sommergibile, non gli rimase altro da fare che segnalare l’avvenuto passaggio del convoglio e la sua consistenza e far ritorno mestamente, non senza aver tentato prima un ulteriore inseguimento in superficie alla massima velocità, verso lo Stretto di San Bernardino, nei pressi dell’Isola di Luzon. Ma se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, essa aiutò davvero il Comandante dell’USS Cavalla: la mattina del 19 giugno, gli idrofonisti di bordo rilevarono un forte rumore di eliche in avvicinamento. Mai incontro fu più propizio. Due incrociatori e un cacciatorpediniere stavano scortando una portaerei, riconosciuta poi nella Shokaku: poco dopo delle 11.00, Kossler partì subito all’intercetto, intenzionato a colpire la grande nave con un angolo di 90°. Serrando le distanze fino a poco meno di 1200 yards, alle 11.18 furono lanciati tutti e sei i siluri di prora, diretti contro l’ignara nave.

Sebbene le scie venissero scorte dal cacciatorpediniere che diede prontamente l’allarme, a nulla valsero le manovre evasive. Ben tre siluri colpirono in pieno la Shokaku, aprendo tre grosse falle e facendo scoppiare un violento incendio all’interno dell’hangar e nel locale dove erano immagazzinate le bombe degli aerei imbarcati. L’incendio fu da subito indomabile: nonostante gli sforzi delle squadre di soccorso, alle ore 15.00 le fiamme raggiunsero un deposito munizioni che, deflagrando, condannò irrimediabilmente e definitivamente l’unità. Con l’affondamento della Shokaku (e di altre due portaerei nello scontro aeronavale delle Filippine) i Giapponesi subirono l’ennesimo duro colpo inferto alla loro Marina Imperiale rendendola, di fatto, militarmente inefficace di fronte alla United States Navy. Intanto, subito dopo l’attacco, l’USS Cavalla fu bombardato con cariche di profondità da parte del Cacciatorpediniere Urakaze, che ne tentò, inutilmente, l’affondamento: le centocinque cariche di profondità danneggiarono, comunque, l’impianto di ventilazione e la strumentazione idrofonica. Alla sua prima missione operativa, l’USS Cavalla aveva colato a picco ben 29.000 tonnellate di naviglio nemico: al suo rientro a Pearl Harbour, il Lieutenant Commander Herman Joseph Kossler venne insignito della Navy Cross, massima onorificenza della Marina Statunitense, per aver contribuito fattivamente alla distruzione delle forze giapponesi nell’Oceano Pacifico.