La Stella Rossa sul mare. La Marina Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale

Tutte le storie hanno un loro inizio. E anche quella raccontata da Gabriele Bagnoli in La Stella Rossa sul mare, saggio dedicato alla Marina Militare Sovietica nel secondo conflitto mondiale ha il suo. E ha inizio con la nomina a Commissario del Popolo della Flotta Rossa degli Operai e dei Contadini di Nikolay Gerasimovic Kuznecov, nell’aprile 1939: compito arduo quello venne affidato direttamente da Josif Stalin ad un ufficiale poco più che trentenne. Ossia quello di creare una grande flotta oceanica, risollevarla dagli anni bui della Prima Guerra Mondiale, della guerra civile e delle purghe della seconda metà degli Anni Trenta, che decapitarono moltissimi vertici delle forze armate. Di più: la nuova flotta rossa avrebbe dovuto competere sui mari e sugli oceani con le loro controparti europee, in primis la Royal Navy inglese e la Kriegsmarine tedesca, ma anche con la United States Navy e con quella giapponese. Con quest’ultima, poi, la cocente sconfitta della flotta zarista di Tsushima, nel 1905, era ancora forte e viva, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle gerarchie militari. Questo racconta il libro di Gabriele Bagnoli: di come un uomo, Nikolay Kuznecov, tentò di risollevare quella marina che, negli della Guerra Fredda, diverrà quella Sovyetsky Voenno Morskoj Flot che contenderà sul mare il predominio alla sua controparte americana. Ma le basi di quella potenza navale andranno ricercate proprio nella riorganizzazione intrapresa dall’Ammiraglio Kuznecov, riorganizzazione e modernizzazione bruscamente interrotte dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Fu proprio con il secondo conflitto mondiale che la nuova Marina Sovietica di Nikolay Kuznecov ebbe la sua prova più grande: divisa in quattro flotte (quella del Baltico, del Mar del Nord, del Pacifico e del Mar Nero), cui si aggiungevano flottiglie minori lacustri e fluviali, dove non arrivarono i mezzi, sopperirono gli uomini con il loro coraggio. E spesso con la vita. Sono, infatti, gli ufficiali, i sottufficiali e i semplici marinai ad essere ricordati in La Stella sul mare: come ricorda l’autore stesso nelle pagine del libro, il lettore non troverà lunghi elenchi di navi, dettagli costruttivi di incrociatori e cacciatorpediniere, nozioni tecniche su calibri e gittate dei cannoni, bensì i nomi e i cognomi di quanti affrontarono in combattimento i Tedeschi, i Rumeni, i Finlandesi e gli Italiani dei MAS sul Lago Ladoga e sul Mar Nero. Ecco, dunque, la vera finalità del libro: vuole essere la voce dei protagonisti, narrare le loro storie e le loro azioni, dare un nome e cognome a quegli uomini di mare che, spesso, donarono la loro stessa vita. Cercare di colmare un vuoto, dunque. Sicuramente questo volume c’è riuscito solo in parte, perché tanto altro è ancora da scrivere e da far conoscere al pubblico degli appassionati di storia militare e dei ricercatori del secondo conflitto mondiale in merito alla Flotta Rossa dell’Ammiraglio Kuznecov. L’augurio dunque è che questo lavoro faccia da apripista e dia impulso a nuove e ulteriori ricerche.

Perché la vittoria, per gli Alleati Anglo-Americani e Sovietici, passò, anche e soprattutto, dal mare: ma non soltanto dal Mar Mediterraneo, dall’Oceano Atlantico e dall’Oceano Pacifico. Passò, infatti, anche dal Mar Nero, dove parallelamente alla flotta di Mosca intere pagine di eccezionale eroismo vennero scritte da un manipolo di marinai italiani al comando di Francesco Mimbelli. E ancora dai Laghi Onega e Ladoga, dalle fredde acque del Mar Baltico e dal Mare Artico, dai corsi dei Fiumi Dnepr e Danubio, per giungere fino alle piccole isole dell’Arcipelago delle Curili, situate all’estremo nord-orientale della Penisola della Kamchatka. Oggi, Nikolai Gerasimovic Kuznecov è considerato dai Russi uno degli uomini più importanti della loro Storia, nonché “padre” della Marina moderna. Alla sua memoria è stata intitolata l’Accademia Navale di San Pietroburgo, nonché l’attuale nave ammiraglia della Voenno Morskoj Flot: la Portaerei Admiral Flota Sovetskogo Soyuza Kuznecov che, con le sue oltre 58.600 tonnellate di dislocamento e i suoi oltre trecento metri di lunghezza, è una delle più grandi al mondo. E, forse, è stato questo il suo lascito più importante: aver aperto il dibattito affinché anche l’Unione Sovietica si dotasse di unità portaerei, fondamentali per ogni potenza che ambisca a giocare un ruolo da protagonista sui mari e sugli oceani.

Sopra la testa le onde: storie di sommergibilismo e di guerra

“Ufficiale di bordo di un sommergibile posamine, durante un’ardita missione svolta in prossimità di base nemica e conclusasi con la posa di uno sbarramento, dimostrava sereno coraggio e sprezzo del pericolo e contribuiva con perizia a sormontare gravi difficoltà causate da avarie al materiale. Mediterraneo Orientale, 7-22 ottobre 1940”. Fu a bordo del Sommergibile Zoea che l’allora Tenente del Genio Navale Giovanni Galantino si guadagnò la Croce di Guerra al Valor Militare in una delle numerose missioni cui il battello della Regia Marina fu chiamato ad assolvere: stendere, senza essere scorto dalle unità della Royal Navy, un campo minato di fronte la munitissima base navale di Haifa, nelle stesse acque in cui, in una missione identica e quasi contemporanea, scompariva il Sommergibile Foca, presumibilmente incappato in una delle tante mine disseminate forse dagli Inglesi o dagli Italiani stessi. Con il Foca, scomparvero sessantanove uomini, tra cui il Comandante, Capitano di Corvetta Mario Ciliberto. E oggi quelle imprese, che a più di ottanta anni di distanza hanno quasi dell’incredibile, rivivono in un libro, Sopra la testa le onde, scritto da Giovanni Patini, dopo aver raccolto e ordinato i racconti proprio del Tenente Galantino, suo nonno, in un’opera che riunisce, come ricordato anche dall’autore stesso, sia il saggio storico, sia il racconto, quasi una sorta di diario personale per la prima volta dato alle stampe.

1. Sopra la testa le onde nasce con uno scopo preciso: tramandare alle generazioni future quanto fatto in guerra dai nostri nonni, per preservarne la memoria. E il ricordo. Non è così?
Sì, è proprio così, anche se in realtà ho iniziato a scrivere le prime righe su richiesta delle mie sorelle e dei miei cugini: di otto nipoti sono io infatti quello che ha avuto la fortuna di trascorrere più tempo con il nonno e di ascoltare i suoi racconti sulla sua vita in Marina. Dopo aver scritto solo alcuni dei racconti contenuti nel libro, mi è stato chiesto di aggiungere un po’ di spiegazioni per poterli meglio comprendere e da lì sono partite le mie ricerche, che mi hanno portato non solo a trovare una collocazione spazio temporale agli eventi, ma anche a ricollegare tra loro altri spezzoni di memoria, che mi hanno consentito di arrivare ai dieci racconti che il libro raccoglie. E così ne è uscito qualcosa che è un po’ un saggio e un po’ una raccolta di racconti e che spero tramandi alle prossime generazioni le storie del passato, che hanno messo in luce al tempo stesso la follia della guerra ed il valore dell’amore per la patria. E magari qualche giovane, dopo aver letto il libro, andrà ad approfondire la storia della Seconda Guerra Mondiale e scoprirà le gesta eroiche che distinsero la Marina Italiana. Devo ammettere che il lavoro di ricerca è stato molto avvincente, come una caccia al tesoro intrapresa con pochissimi indizi iniziali: i nomi dei sommergibili sui cui era stato imbarcato il nonno, la sua Croce di Guerra e pochissimo altro. Purtroppo mia nonna, ancora viva quando ho iniziato a scrivere il libro, non era più in grado di fornirmi informazioni, ma quando si è spenta, nel luglio 2020, ho trovato in casa sua alcuni documenti che mi hanno molto aiutato nella ricostruzione degli eventi. Un prezioso supporto mi è stato fornito anche dall’Ufficio Storico della Marina, che mi ha inviato le copie di alcuni documenti fondamentali, e gli amici dell’Associazione BETASOM, che mi hanno dato alcuni preziosi consigli tecnici marinari.

2. Giovanni Galantino fu ufficiale sul Sommergibile Zoea, uno dei pochi sopravvissuti alla guerra. Quale furono le sue esperienze nel teatro del Mediterraneo?
Galantino fu ufficiale su diversi sommergibili, ma sicuramente lo Zoea era quello a cui era più legato, perché vi aveva trascorso il periodo di guerra più lungo in qualità di Direttore di Macchina. Le missioni a cui Galantino prese parte furono in totale undici, tra il 1940 ed il 1941: una di agguato, una di minamento, una di pattugliamento, due di trasferimento e sei di trasporto materiale. Molte miglia percorse in un Mar Mediterraneo che nelle prime settimane di guerra sembrava un immenso deserto d’acqua, mentre già dopo pochi mesi era infestato di insidie che giungevano dal mare e dal cielo. In effetti, il corpo dei Sommergibilisti è quello che in percentuale ha subito il maggior numero di vittime durante la guerra ed è molto semplice spiegarne il motivo: quasi sempre la perdita di un battello significava la morte dell’intero equipaggio. Galantino, che apparteneva al Genio Navale, ebbe la fortuna di essere impiegato in missioni solo durante il primo anno di guerra, per poi essere destinato alla Scuola di Pola come Ufficiale Istruttore e successivamente all’Arsenale di Taranto per occuparsi della costruzione di nuove unità.

3. Non solo racconti di guerra, ma Sopra la testa le onde narra anche di episodi di normalità a bordo di unità della Regia Marina. Uno spaccato, questo, che raramente si trova in altri libri…
Confermo: i miei non vogliono essere racconti di guerra, ma racconti durante la guerra. Certo, la missione di minamento o il bombardamento subito riportano azioni belliche, ma credo che, quando da piccolo il nonno mi narrava delle sue avventure, fosse soprattutto per raccontarmi delle curiosità, spesso divertenti, che nascondevano completamente la drammaticità degli eventi. D’altra parte il racconto del libro a cui probabilmente sono più legato è quello dal titolo Salami, topi ed altre storie, che raccoglie piccoli episodi di normalità, da cui si comprende che la vita a bordo non significava solamente missioni di guerra. Aggiungo che mi è piaciuto scoprire che durante i suoi imbarchi nessun sommergibile ha lanciato siluri né causato vittime. Solo in una delle prime missioni sono state impiegate le mine, la cui posa ha peraltro creato molto più pericolo per il sommergibile stesso che non per il nemico.

4. Alla fine del conflitto, Giovanni Galantino lasciò la Marina. Come fu la sua vita in “borghese”?
All’inizio del 1947 Galantino diede l’addio alla vita militare e si trasferì a Reggio Emilia, dove esercitò brillantemente la professione di ingegnere, sia come dirigente d’azienda sia come libero professionista. I primi anni a Reggio, provincia dilaniata nel primo dopoguerra dal conflitto sociale, furono molto difficili. Il clima era avvelenato dalla politica e Galantino, dirigente delle Officine Greco, fu spesso bersaglio degli attacchi dei sindacati e delle pagine locali de L’Unità. Nel 1952 ricevette addirittura una minaccia di morte. Ciononostante fu sempre molto stimato, tanto per le sue competenze quanto per il suo rigore morale: in altre parole è sempre rimasto l’ufficiale di marina che era, anche indossando gli abiti civili da ingegnere.

Ignoto Militi. Come il Figlio d’Italia giunse al Vittoriano

Toccò a lei, scegliere la bara avvolta dal Tricolore. Lei, che aveva perduto il figlio Antonio il 18 giugno 1916 durante un attacco sul Monte Cimone di Tonezza. Una bara soltanto, tra le undici, perfettamente allineate nella Basilica di Aquileia: e quando raggiunse la decima, in preda alla commozione e al ricordo di quel suo figlio caduto per la Patria, Maria Bergamas si accasciò al suolo, piangendo e gridando il nome del figlio. Era il 28 ottobre 1921: da quel giorno, quel corpo rimasto senza nome diverrà il Milite Ignoto, mentre lei, Maria, verrà ricordata come la Mamma d’Italia, in rappresentanza di tutte quelle madri che persero un figlio in battaglia. E dopo cento anni, quella salma senza nome, vegliata giorno e notte prima dai soldati regi, e oggi dai militari delle quattro Forze Armate Italiane, è ancora là nel centro di Roma, alla base di quello che un tempo era solo il Vittoriano, il maestoso e imponente monumento in marmo bianco, opera dell’Architetto Giuseppe Sacconi, al Re Vittorio Emanuele II. Attraversò due guerre, Maria Bergamas: morì a Trieste il 22 dicembre 1953, poco meno di un anno prima che la città friulana tornasse definitivamente a far parte del territorio italiano. Il 3 novembre 1954 la sua salma verrà definitivamente traslata nel Cimitero di Guerra degli Eroi di Aquileia. Ai suoi lati, gli altri dieci corpi rimasti senza nome. E a similitudine delle undici salme che quel 28 ottobre 1921 vennero passate in commossa rassegna da una madre afflitta, cento anni dopo undici storie rivivono in Ignoto Militi, un corale racconto che ripercorre con le sue storie il sacrificio di quei 650.000 Caduti, tra i quali anche Antonio Bergamas, che si arruolò sotto falso nome nel 137° Reggimento Fanteria, Brigata Barletta, essendo la sua Gradisca d’Isonzo ancora terra asburgica. Ne parliamo con Cristina Di Giorgi, una delle curatrici del volume.

Sono passati cento anni da quando la salma del Milite Ignoto è stata inumata all’interno del Vittoriano. Perché questo libro?
L’idea è nata proprio per celebrare il centenario della tumulazione. Io e Bianca Penna, le curatrici di Ignoto Militi (Edizioni Idrovolante), cercavamo un modo di onorare la ricorrenza. Un modo particolare. L’abbiamo trovato decidendo di pubblicare una raccolta di racconti dedicati alle undici salme tra le quali è stato scelta quella che dal 4 novembre 1921 riposa a Roma, al viaggio attraverso l’Italia che ha compiuto il treno che da Aquileia ha portato il Milite Ignoto nella Capitale e al significato dell’amore di Patria ieri e oggi. Una raccolta di racconti che ha una particolarità: gli autori degli stessi sono tutte donne, come anche chi ha firmato prefazione e postfazione. Ogni firma ha messo nelle sue parole la propria sensibilità e percorso di vita: il risultato è un mosaico di storie diverse ma unite da uno stesso sentire e soprattutto dalla volontà di rendere omaggio a colui che continua a rappresentare il senso più profondo dell’italianità. Ci tengo poi a dire un’altra cosa: in appendice al testo c’è, a cura del Comitato 10 Febbraio, uno scritto su un’iniziativa molto importante, ovvero la proposta di conferire al Milite Ignoto la cittadinanza onoraria in ogni città d’Italia. Mi auguro che siano in molti ad aderire.

Come mai la scelta di far scrivere soltanto donne?
Il motivo è duplice: da un lato abbiamo voluto per quanto in nostro potere rivalutare il ruolo della donna moderna, troppo spesso appiattita su sterili posizioni politicamente corrette e vuota di valori; dall’altro abbiamo voluto rendere omaggio a Maria Bergamas, la donna del popolo triestina chiamata a scegliere la bara di colui che sarebbe diventato il Milite Ignoto. “Perché se il Soldato Ignoto è un Figlio d’Italia – abbiamo infatti scritto nella quarta di copertina – le donne ne sono le fidanzate, le mogli, le figlie, le mamme. Mamme come Maria Bergamas, che alla Patria donò la vita di suo figlio Antonio”.

Hai accennato a Maria Bergamas, colei che scelse la salma tra quelle di undici ignoti tratti dai principali campi di battaglia della Grande Guerra ed è stata definita Mamma d’Italia. Chi era? E perché fu scelta?
E’ stato il caso a renderla un simbolo ancora oggi evocativamente molto potente e significativo (come del resto tutti i simboli che hanno radici). Maria Bergamas era nata a Gradisca d’Isonzo nel 1867 ed in seguito si era trasferita a Trieste, dove si era sposata e aveva avuto un figlio: Antonio. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il giovane, fervente irredentista, volle sottrarsi alla leva obbligatoria nell’Esercito Austriaco per vestire la divisa italiana. Nel 1916, dopo una coraggiosa azione che gli valse una Medaglia d’Argento al Valor Militare, il giovane morì e fu sepolto in un cimitero di guerra sull’Altipiano dei Sette Comuni. L’area, però, fu purtroppo teatro di un violento bombardamento, con conseguente impossibilità di identificazione delle salme ivi tumulate. Antonio e i suoi commilitoni che riposavano a Marcesina, dunque, furono dichiarati dispersi. Quando, dopo la fine del conflitto, si decise di ricordare e rendere onore al sacrificio di migliaia e migliaia di giovani vite (furono circa 650.000 coloro che, tra morti e mai più ritrovati, non tornarono a casa dal fronte), fu stabilito di farlo individuando la salma di un soldato senza nome che potesse rappresentare tutti i Caduti italiani nella Grande Guerra e tumularla in un luogo simbolico dopo una sorta di rito collettivo in grado di coinvolgere tutto il Paese. Per capire i motivi di questa decisione, basta leggere le motivazioni del disegno di legge ad hoc discusso ed approvato dal Parlamento nell’estate 1921, in cui c’è scritto tra l’altro che “benché non individuata da nessun nome una qualsiasi di quelle salme, scelta a caso fra quella muta e inerte folla ignota, ha la virtù di un simbolo e di un monito, perché rappresenta, da sola, l’eroismo del soldato italiano che con la propria morte ha contribuito ad assicurare la vita e il prestigio della Patria”. E, va ricordato, la sua vittoria. Maria Bergamas, come abbiamo già detto, fu colei che venne designata a sorte per scegliere la salma tra quelle di undici Caduti non identificati, tratte da altrettanti significativi campi di battaglia. Il momento della designazione è stato intensissimo. Non mi vergogno a dire che, guardando per documentarmi un vecchio filmato in cui si vede quella donna con il volto segnato dal dolore accasciarsi davanti ad una delle bare allineate nella Basilica di Aquileia, mi sono commossa. Oggi Maria, che ha raggiunto suo figlio Antonio nel 1953, riposa nel Cimitero degli Eroi insieme agli altri dieci Soldati Ignoti.

Isonzo, Piave, Montello, Pasubio, Grappa, Asiago. Sono solo alcuni dei luoghi dove combatterono i nostri soldati. Cosa unisce, ancora oggi, quelle terre e quei fiumi al Milite Ignoto? E che valori può rappresentare cento anni dopo?
In estrema sintesi, ti rispondo il sangue versato dai tanti giovani che, come il Milite Ignoto, hanno sacrificato la loro vita per difenderle. Resta a monito quella Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria conferita ad Antonio Bergamas e quella motivazione per sempre scolpita nei marmi di molte città: “Volontario di guerra, guidava, con mirabile esempio di valore e di calma, il suo plotone all’assalto, cadendo, colpito a morte, sui reticolati nemici. Falde orientali del Monte Cimone, 18 giugno 1916”. Mentre i valori, sono quelli, eterni, che ha sempre rappresentato. Ovvero il sacrificio anche della propria vita in nome dell’amore per la Patria. Certo, ai nostri tempi è più difficile che tali sentimenti siano compresi e diffusi. Difficile, ma non impossibile. Noi (e mi permetto di dirlo a nome di tutti coloro che hanno collaborato a Ignoto Militi) la nostra parte abbiamo cercato di farla. Ci auguriamo che tutti coloro che leggeranno il nostro libro, magari stimolati e coinvolti dal nostro lavoro, sappiano e vogliano fare la loro.

Nicola Romeo e il sogno dell’Alfa

Enzo Ferrari, Gianni Agnelli, ma anche Henry Ford, Ferdinand Porsche, Karl Benz. Nomi che hanno segnato i secoli passati, legando indissolubilmente la loro storia a quella dei motori e delle quattro ruote. Storie di uomini e di ingegno, capaci di guardare al presente con lo sguardo proiettato al futuro, immaginando veicoli sempre più potenti e veloci, in grado di battere e infrangere un record dopo l’altro. Accanto a questi nomi, un altro, spesso dimenticato o sottovalutato, riuscì a imporsi nell’immaginario collettivo italiano all’inizio del Novecento, rilevando, per lui che veniva dal Sud, un’azienda lombarda, l’ALFA (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), fondata il 24 giugno 1910 a Milano e che per i motivi più vari non navigava in perfette acque. Si trattava di Nicola Romeo, che fu in grado di imprimere al marchio del Biscione quella svolta industriale e, diremmo oggi, manageriale, che la porterà ad essere una delle principali industrie italiane, ancora oggi, dopo oltre un secolo di vita. E la storia di questo ingegnere, romantico e sognatore, ma al tempo stesso deciso e determinato, viene raccontata da Ivan Scelsa, Girornalista, nel libro Nicola Romeo. L’uomo dietro la mitica Alfa. E noi, per raccontare questa storia rimasta ingiustamente segreta troppo a lungo, abbiamo rivolto qualche domanda all’autore.

Di Enzo Ferrari e del mito del Cavallino Rampante è stato scritto praticamente tutto e di tutto. Come mai, invece, di Nicola Romeo si è sempre saputo poco?
Duole dirlo, ma anche tra gli storici ed appassionati del Marchio, quella di Nicola Romeo è sempre stata erroneamente ritenuta una figura secondaria. A differenza di Enzo Ferrari (che ricordiamolo, all’Alfa Romeo deve molto…) la storia personale dell’ingegnere campano dai natali lucani è solo in parte legata al settore automobilistico. Questo, per la letteratura di settore, ha sempre rappresentato un limite. Quello di Romeo nell’Alfa è un viaggio che dura meno di poco più di nove anni e che ripercorre una storia nella storia, fatta di uomini, politica, azioni svalutate ed interessi bancari e forse da quell’idea un po’ romantica di chi, nel potenziale di quell’azienda, ha creduto sin dal primo momento.

Una storia poco nota di questo ingegnere della provincia di Napoli trapiantato al nord, in Lombardia, fu il contributo dato alla Grande Guerra. Soprattutto per le operazioni sul Col di Lana, non è così?
Nel 1915, Nicola Romeo riconverte gli stabilimenti dell’Alfa del Portello alla produzione bellica tanto che, con l’aiuto dei suoi potenti impianti di aria compressa, l’anno seguente appronta la famosa esplosione del Col di Lana che si rivela un’ottima scelta per la crescita economica dell’azienda proprio in virtù dell’ingresso del nostro Paese nel primo conflitto mondiale. E’ uno spirito inquieto quello di Nicola Romeo; è un uomo dotato di fortissime qualità pratiche e persuasive, capace di creare una rete di potenti officine per l’approntamento di proiettili di artiglieria di cui tiene le redini e a cui fanno capo diversi migliaia di operai, centinaia di impiegati ed ingegneri divisi in vari stabilimenti. In solo un decennio, dal 1905 al 1915, è in grado di fondare e presiedere diverse attività, tra cui la Ing. Nicola Romeo & C., la Società Liguria, le Officine Ferroviarie Meridionali, la Società Cementazioni per opere pubbliche, solo per citarne alcune, a conferma di interessi poliedrici che danno importanti utili proprio in tempo di guerra.

Nicola Romeo fu senza dubbio un uomo di grandi vedute e grandi capacità. A cosa si deve questa sua “fortuna” nel rilevare l’ALFA nel 1915?
E’ il 1909 quando Romeo giunge nel vivace capoluogo lombardo per aprire un’officina di appena cinquanta dipendenti in via Ruggero di Lauria (poco lontano dal Portello) dove assembla le perforatrici ed i compressori pneumatici per una ditta statunitense. Riesce ad aggiudicarsi alcuni lavori per la realizzazione di grandi progetti idroelettrici e quindi l’applicazione dell’aria compressa nelle gallerie Roma-Napoli e Bologna-Firenze. Nel contempo, gli stabilimenti del Portello della Società Italiana di Automobili Darracq vengono rilevati da un gruppo di imprenditori che fonda l’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili. E’ la mancanza di capitali ed una situazione societaria precaria che gli consentono di acquistare senza particolari difficoltà la piccola azienda. Con questa acquisizione, di fatto, Romeo controlla un vero impero che, seppur non detenendo la maggioranza delle azioni, riesce a gestire agevolmente. Ed è proprio durante la Prima Guerra Mondiale che la espande, convertendo la produzione di vetture in materiale bellico: una scelta quasi vincolata per la sopravvivenza.

I tempi d’oro dell’automobilismo videro l’Alfa Romeo primeggiare in Formula 1 tra il 1950 e il 1951, con piloti del calibro di Nino Farina e Juan Manuel Fangio. Oggi ritorna come team sponsor della Scuderia Sauber. Quanto c’è, ancora oggi, di quel sogno immaginato da Nicola Romeo?
Il sogno di Nicola Romeo dura poco più d’un battito d’ali, giusto il tempo di riconvertire l’Alfa alla produzione bellica dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale e vederla rilanciata nei primi successi commerciali e sportivi. Un secolo dopo, sulla eco di gloriose vittorie, pagine leggendarie di motorismo e di quell’indiscutibile fascino che le vetture del Biscione tutt’ora conservano nell’immaginario collettivo, la speranza che le Alfa di Formula Uno possano diventare qualcosa di più che un crogiuolo di sperimentazione e vivaio di giovani talenti è quanto ogni Alfista custodisce dentro di sé. Quel sogno, oggi, è parte di ognuno di noi.

Quattro Eroi: Guillet, de la Penne, D’acquisto, Buscaglia

Voleva tornare ai comandi di un velivolo, quel 23 agosto 1944, nonostante le ferite e i traumi conseguenti al suo abbattimento, avvenuto il 12 novembre 1942, ne minavano ancora il corpo. Eppure quel giorno, il Maggiore Carlo Emanuele Buscaglia volle comunque sedersi ai comandi del nuovo velivolo Martin 187 Baltimore, bombardiere bimotore di costruzione statunitense che equipaggiava il XVIII Gruppo dell’Aeronautica Cobelligerante. Da venti mesi non volava, da quando sopra i cieli di Bugia era stato abbattuto ai comandi del suo Savoia Marchetti SM79, quel “gobbo maledetto” che tanti danni e duri colpi aveva inflitto alle navi inglesi e ai convogli alleati che incrociavano sul Mar Mediterraneo. Il Maggiore Buscaglia, una Medaglia d’Oro e sei d’Argento al Valor Militare, tre fra promozioni e avanzamenti per merito di guerra, approfittando di un momento in cui era assente il personale di terra e di controllo dell’Aeroporto di Campo Vesuvio a Ottaviano, alle porte di Napoli, decollò con un Baltimore. Forse voleva dimostrare a sé stesso che era ancora quel pilota che fino a due anni prima colava a picco il naviglio nemico o più semplicemente, vinto dall’orgoglio, voleva mandare un messaggio ai suoi superiori che avrebbero desiderato affiancargli un copilota: ma i Baltimore non erano gli Sparvieri. Un’alta, toccando la pista, trasformò il velivolo in una palla di fuoco, dopo un’improvvisa imbardata: lui riuscì a gettarsi fuori dalla cabina avvolta dalle fiamme e, soccorso prontamente, venne trasportato all’Ospedale Militare di Napoli, dove morì il giorno seguente, 24 agosto 1944, all’età di ventinove anni, per le gravi ferite, ma soprattutto per le ustioni. Ed è uno dei 4 Eroi, Carlo Emanuele Buscaglia, la cui vita rivive oggi sotto forma di fumetto nei disegni di Marco Trecolli, in un volume edito dallo Stato Maggiore della Difesa. Al fianco di Buscaglia, Amedeo Guillet, Luigi Durand de la Penne e Salvo D’acquisto.

Raccontare la storia sotto forma di fumetto. Questo è lo scopo di 4 Eroi: narrare la storia non sotto forma di saggio, di libro che elenca date, battaglie, eventi: ma un qualcosa di diverso, in grado di attrarre per la prima volta non solo storici e appassionati, ma anche giovani e ragazzi. Ecco allora che le imprese del Comandante de la Penne, assieme agli uomini della Regia Marina e della Decima MAS, rivivono fino all’impresa del 19 dicembre 1941, quando, uscendo dal Sommergibile Sciré pilotando i siluri a lenta corsa, gli antenati dei moderni Incursori del COMSUBIN misero a segno una delle più celebri imprese di tutto il conflitto: l’affondamento delle Navi da Battaglia Valiant e Queen Elizabeth e della Nave Cisterna Sagona e del grave danneggiamento del Cacciatorpediniere Jarvis. Vere e proprie epopee. Come epopea fu la vita di un altro Eroe, Amedeo Guillet, che in Africa Orientale guidò le sue truppe contro le forze inglesi e, una volta arresisi anche gli ultimi presidi italiani sull’Amba Alagi, guidò la resistenza italiana, compiendo azioni di sabotaggio e disturbo per il resto del conflitto, creando non pochi danni e disagi ai soldati del Commonwealth.

E, infine, la storia di chi donò la propria vita per salvare quella degli. Non ci pensò un attimo, il Vice Brigadiere dei Carabinieri Reali Salvo d’Acquisto ad autoaccusarsi di un presunto attentato compiuto ai danni di un presidio tedesco, alle porte di Roma, nei pressi di Palidoro. In realtà, non vi fu nessun attacco: durante un’ispezione ad alcune casse di munizioni, forse per negligenza, forse per distrazione, alcune di queste detonarono, uccidendo sul colpo due soldati tedeschi e ferendone altrettanti. Era il 22 settembre 1943. E quando i soldati germanici rastrellarono ventidue abitanti della zona, quando ormai il plotone di esecuzione era pronto con il dito sul grilletto sulla mitragliatrice, Salvo d’Acquisto compì il gesto che lo farà diventare Eroe. Disse di averlo compiuto lui l’attacco, lanciando una bomba a mano. La raffica lo colpì in pieno petto, consacrandolo per sempre in quell’angolo di cielo dove, da sempre, risiedono i Santi e i Martiri. Ma anche gli Eroi.

Uomini contro bombe

Una giornata come tante, quella del 28 luglio 2010 a Herat, in Afghanistan, per gli uomini e le donne del Contingente Italiano. Pattugliamenti, incontri con la popolazione locale, trasferimenti tra una base e un’altra. Fino a quel giorno, i soldati italiani avevano già pagato un altro tributo di sangue, in una delle missioni oltremare più impegnative che fino ad allora aveva visto coinvolto il personale delle Forze Armate Italiane. Ma quel 28 luglio 2010 fu diverso per un tragico motivo: durante una bonifica di una zona da alcuni ordigni improvvisati, i letali IEDD (Improvised Explosive Device Disposal), una violenta esplosione investiva in pieno il 1° Maresciallo Mauro Gigli, del 32° Reggimento Genio, e il Caporalmaggiore Capo Pierdavide De Cillis, in forza al 21° Reggimento Genio. A nulla valsero i soccorsi immediati: i nomi dei due militari italiani andarono ad allungare il già triste elenco di quanti sacrificarono la propria fino a quel momento in terra afgana. Erano uomini contro bombe, così come lo era Stefano Rugge, Maggiore del 10° Reggimento Genio Guastatori, che pagò con la propria vita, l’8 maggio 2002, il tentativo di mettere in sicurezza una strada minata, in un altro teatro operativo, quello balcanico, nei pressi di Popola Sapka, nella Repubblica di Macedonia. Uomini contro bombe, come quelli raccontati nel volume edito dallo Stato Maggiore della Difesa e che ripercorre l’addestramento e l’operatività di coloro che sono definiti, forse troppo sbrigativamente, sminatori, ma che in realtà combattono una guerra silenziosa, dietro le quinte, contro minacce invisibili: mine antiuomo e anticarro, ordigni improvvisati, vecchi residuati bellici, bombe inesplose.

Un lavoro a più mani, scritto da esperti del settore della Difesa, con lunghi trascorsi nelle operazioni fuori area condotte dalla Forze Armate Italiane. Uomini contro bombe illustra al lettore come, una volta vinta una guerra o pacificata un’area di crisi, la missione dei militari è tutt’altro che conclusa. Inizia la bonifica da tutto quel materiale inesploso abbandonato sul campo di battaglia, che può rivelarsi letale non solo per i soldati stessi ma anche per le popolazioni locali che vi abitano. Ma non solo. L’Iraq e l’Afghanistan, per la colazione occidentale, si sono dimostrati letali non tanto per le battaglie e i combattimenti, quanto per le trappole esplosive disseminate lungo strade, rotabili, piste nel deserto, attivate al passaggio dei convogli alleati durante i pattugliamenti o l’assistenza alle popolazione vittima del conflitto. Per questo arrivano loro, soldati rinchiusi dentro scafandri atti a contenere i danni delle esplosioni degli IED, abili a riconoscere quale filo tagliare e quale collegamento interdire. Un’opera che non viene svolta solamente all’estero. Anche in Italia, sul suolo nazionale, quegli stessi Genieri inviati nei teatri di crisi, vengono spesso chiamati a neutralizzare vecchie bombe d’aero, mine marine arrugginite, siluri affondati risalenti ai due conflitti mondiali, venuti alla luce durante opere di rifacimento di strade, ponti, viadotti. E l’essere ormai vecchi di quasi un secolo non li ha resi certo meno offensivi e pericolosi.

Come scritto nelle prime pagine del volume, uomini contro bombe sono “tre parole che racchiudono un vero e proprio mondo fatto di coraggio, passione, tecnologia e professionalità: quello degli specialisti delle Forze Armate impegnati quotidianamente nella lotta agli ordigni esplosivi, in Italia e all’estero. Un mondo dove il pericolo è sempre dietro l’angolo e nel quale, malgrado l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate, il fattore umano è centrale. Un mondo caratterizzato da minacce sempre nuove e diversificate alle quali si contrappongono militari altamente specializzati, che mettono a rischio la propria vita per salvare la vita degli altri”. E la vita degli altri la salvarono senza dubbio di smentita alcuna anche Stefano Rugge, Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis: in territori già martoriati da guerre civili e di religione, cercarono di rendere più vivibili quei luoghi alle generazioni future, pagando in prima persona l’insidia portata da mine e trappole esplosive.