Due equipaggi e una guerra mondiale

C’è tanto da imparare su quelli che un tempo furono i campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale, sparsi un po’ dappertutto in Italia. Così come recandosi in visita presso uno dei tanti cimiteri e sacrari sorti dopo il conflitto e che raccolgono i resti di migliaia di soldati italiani, tedeschi, americani, inglesi. Come a Firenze, dove sorse, a partire dal 1947, quello che oggi è conosciuto come Florence War Cemetery, e che ospita oltre 1600 caduti del Commonwealth britannico, uccisi nei combattimenti che interessarono l’Appennino Tosco-Romagnolo nell’estate del 1944 (ma non solo): raggiunta la città di Firenze a metà agosto, gli Alleati proseguirono la loro avanzata fuori il capoluogo toscano, attestandosi sul tratto appenninico della Linea Gotica, tra Scarperia, il Passo del Giogo e della Futa, mentre sul versante tirrenico, ai piedi delle Alpi Apuane, i soldati brasiliani e della Divisione Buffalo procedevano in direzione di Pistoia, della Lucchesia e della Garfagnana. E questi cimiteri, ultimo luogo di riposo di tanti giovani poco più che ventenni, possono ancora oggi raccontare tantissime storie. Aspettano solo qualcuno in grado di poterle ascoltare e tramandarle, perché la memoria, ancora una volta, non vada perduta per sempre. Esattamente come quella di due equipaggi, che nel Florence War Cemetery sono stati sepolti, uno accanto all’altro, come in un ultimo volo. Assieme. Quando, il 25 novembre 1943, da un campo d’aviazione nei pressi di Tunisi decollò una formazione del 142th Squadron della Royal Canadian Air Force, composta da una settantina di velivoli, l’obiettivo era quello di raggiungere la periferia di Torino, colpire gli stabilimenti industriali e fare ritorno alla base.

Una missione di routine, identica a quelle già portate a termine nelle settimane e nei mesi precedenti. Ma niente, in guerra, può diventare routine. Soprattutto quando qualcosa, ad oltre mille metri di quota, può andare storto. Un guasto improvviso, un’avaria non contemplata, la caccia nemica e la reazione della contraerea possono trasformare una semplice missione di volo in qualcosa di disastroso. E quel 23 novembre 1943 furono tante le cose che andarono storte. Nonostante il servizio meteorologico della RAF britannica svolse nei giorni antecedenti il volo una precisa e alacre attività sulle condizioni del tempo, una volta in volo i piloti del 142th Squadron incapparono in strati di nuvole basse, forti temporali, formazioni di ghiaccio, raffiche di vento. Molti andarono fuori rotta, cercando invano alcuni punti costieri facilmente riconoscibili, altri tentarono di raggiungere Torino e le sue fabbriche, altri andarono perduti per sempre. Come il Vickers Wellington pilotato dal Sergente Pilota Stanley Joseph Oulette e dal Navigatore Charles Maxwell Mair. Con loro, i Sergenti Geoffrey Urwin Topp (mitragliere), George Perry Armstrong (addetto al vano bombe) e Gordon Bowering (addetto alle comunicazioni radio). Persisi tra le nubi, la nebbia e i forti piovaschi, forse cercando di abbassarsi per riconoscere la zona sorvolata, precipitarono presso Fornovolasco, sulle montagne della Pania della Croce, in Garfagnana, la stessa zona che, un anno dopo, sarà teatro dei duri scontri tra gli Alleati e le forze italo-tedesche sulla Linea Gotica.

Storie di uomini, prima ancora che di soldati. Caduti in una guerra che neanche si immaginavano, pochi anni prima, di dover combattere. E c’è chi continuò a volare anche quando il proprio Paese non esisteva più, annesso ai territori del Reich da oltre tre anni. Era il 26 giugno 1944. Roma era stata raggiunta il 4, mentre il giorno 6, nel Nord della Francia, nella Normandia, aveva avuto inizio l’assalto alla Fortezza Europa, con uno sbarco condotto da oltre cinquemila navi ed una potenza di fuoco mai vista prima. Entrati nel 55th Squadron, il Capitano Pilota Sava Zarkov, il Tenente Sinisa Zlatanovic e i Sergenti Georgije Grozdanitch e Jozef Starc prestavano servizio nell’Aviazione Jugoslava: quando, dall’aprile 1941, il loro Regno cadde sotto i cingoli dei Panzer tedeschi, riuscirono a raggiungere l’Inghilterra e a continuare a combattere volando con i distintivi della Royal Air Force. Decollati a bordo di un Bombardiere Martin Baltimores per una missione di ricognizione nella pianura pistoiese, a ridosso delle linee nemiche, a notte inoltrata il velivolo non diede più notizie. Vani furono i tentativi di mettersi in contatto radio: ai messaggi lanciati nell’etere, non pervenne mai nessuna risposta. Quando l’avanzata alleata proseguì verso il centro-nord della Toscana, i quattro Avieri jugoslavi vennero rinvenuti nei pressi di Casone, frazione di Sambuca Pistoiese. Sono trascorsi oltre settant’anni da quegli eventi. Ma i due equipaggi sono ancora li, in un verde prato poco fuori Firenze, riuniti nel Florence War Cemetery in attesa di qualcuno che racconti ancora una volta la loro storia. Noi ci abbiamo provato.

Viareggini decorati al Valore

Era nato a Viareggio, nel 1914, Mario Martignoli, di professione ragioniere. Ma avrebbe ben presto dovuto lasciare, e mettere per un momento da parte, la contabilità e le partite doppie, partendo per l’Africa Orientale: arruolatosi nella Regia Aeronautica, con i gradi di Sergente Maggiore fu inviato nei territori appena conquistati dell’Etiopia, in quel nuovo Impero proclamato dal Regime di Mussolini. Ai comandi di velivoli da ricognizione e bombardamento, Mario Martignoli prese parte a diverse missioni per contrastare le ultime sacche di resistenza, fino a quando, l’11 maggio 1938, durante un’azione a bassa quota, il proprio velivolo venne colpito e si schiantò al suolo. Fu decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria: “Valoroso e ardito pilota, in numerosissime missioni belliche compiute nei cieli dell’Impero, faceva rifulgere le proprie qualità di combattente audace, sereno, sprezzante del pericolo. Partecipava a rischiose azioni di ricognizione, bombardamento e mitragliamento a volo rasente, dimostrando sempre calmo coraggio e ragionato ardimento. Durante lo svolgimento di una missione bellica, incontrava morte gloriosa. Cielo dell’Impero, gennaio 1937-11 maggio 1938”. Oggi, il Sergente Maggiore Martignoli riposa, assieme ad altri 234 Caduti dei due conflitti mondiali nel piccolo, ma composto, Sacrario Militare ricavato all’interno del cimitero di Viareggio.

Fa sempre un certo effetto ricercare notizie su quanti caddero in battaglia, magari durante un assalto della fanteria, o affondati con la propria nave in alto mare, oppure abbattuti mentre si trovavano ai comandi dei propri velivoli. Certe volte si scoprono storie di vero coraggio, di uno spirito di servizio e del dovere che supera ogni previsione, anche di fronte ad una morte certa. Come Ranieri Gori, Soldato del 182° Reggimento Fanteria Costiera, dislocato in Corsica e travolto dai fatti dell’8 settembre 1943, da quell’armistizio che colse di sorpresa interi comandi. Era il 17 settembre, quando, nonostante una grave amputazione di un arto causata da una scheggia, continuò a combattere contro un reparto tedesco, fino a quando una raffica ne stroncò la vita. Si meritò una Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria: “Portaordini di un comando di reggimento rimasto accerchiato durante un attacco tedesco, assieme al reparto al quale aveva recapitato un ordine, si lanciava arditamente al contrassalto. Ferito gravemente da scheggia di mortaio che gli asportava il braccio sinistro, benché esausto per il sangue perduto, lanciava sull’avversario le sue ultime bombe a mano, incitando i compagni a persistere nella lotta. Colpito una seconda volta da piombo avversario, cadeva da Eroe al suo posto di combattimento. Picalcroce, Croce, 17 settembre 1943”. E due anni prima, durante la campagna di Grecia, Pietro, fratello di Ranieri, Sottotenente del 225° Reggimento Fanteria Arezzo, guidando e spronando i suoi Fanti all’assalto di Quota 1876, cadeva colpito a morte da una scarica di fucileria, dopo aver lanciato le sue ultime bombe a mano. Alla sua memoria, la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Aiutante Maggiore di un Battaglione impegnato in aspro combattimento, attraversava terreno battuto per partecipare all’azione. Visto che presso una quota il nemico stava per sopraffare i difensori, si poneva alla testa di pochi uomini e si lanciava all’assalto con violenta azione di bombe a mano. Nel corso di tale ardita azione, colpito da proiettile, cadeva da valoroso. Quota 1876 di Uj i Fofte, Fronte Greco, 4 aprile 1941”. Oggi, i fratelli Ranieri e Pietro riposano uno accanto all’altro, finalmente riuniti.

E poi i tanti caduti della Grande Guerra, come il Soldato Ovidio Canova, del 141° Reggimento Fanteria, Brigata Catanzaro che, sopravvissuto a numerosi assalti sul Carso, il 18 gennaio 1917 perdeva la vita a seguito di una grave malattia, dovuta ai patimenti sofferti durante la logorante guerra di trincea. Apparteneva, invece, al 263° Reggimento della Brigata Gaeta il Sottotenente Agide Caprili, deceduto nell’Ospedale da Campo n. 55 l’8 dicembre 1918 a causa della pandemia di Spagnola che imperversò gli ultimi anni del conflitto e che contribuì in maniera drammatica a seminare nuovi lutti in milioni di famiglie europee e non solo. In un assalto, il Caporalmaggiore Romeo Lombardi, del 23° Reggimento Fanteria, Brigata Como, veniva ferito gravemente: a niente valsero le cure dei sanitari e dei medici: spirava il 7 agosto 1918 a bordo dell’Ambulanza Chirurgica d’Armata n. 1. Infine, durante la Battaglia del Solstizio, inquadrato nel 3 Reggimento Artiglieria Da Montagna, cadeva l’Artigliere Gino Tofanelli, mentre dalle sue posizioni lungo il corso del Fiume Piave contrastava l’assalto nemico. Nuovamente sul fronte greco-albanese, un altro viareggino venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria, il Sottotenente Tommaso Paglione, del 19 Reggimento Artiglieria Venezia: “Capo Pattuglia presso un Reggimento di Fanteria, si portava di iniziativa dove più aspra era la lotta per consentire una maggiore efficacia al tiro del suo gruppo. Accortosi che una sezione di accompagnamento era rimasta priva di Ufficiali e di Capi Pezzo, spontaneamente e incurante del tiro nemico, si portava ad un’arma e personalmente la manovrava aprendo il fuoco a breve distanza contro incalzanti forze avversarie, che riusciva contemporaneamente a contenere. Obbligato a ripiegare, caduti i pezzi in mano all’avversario, nell’intento di riprendere i propri cannoni, riuniva i conducenti e con trascinante esempio li guidava al contrassalto, dal quale non tornava. Kokoglavo, Quota 1907, Albania, 4 novembre 1940”. Tanti altri sono qui ricordati. Sia nei loculi individuali, sia nelle bianche lapidi marmoree, il cui corpo non è stato più possibile identificare e localizzare, scomparso per sempre tra i vortici della guerra.

Bolognana, 24 novembre 1939: morte in galleria

Quando vennero iniziati i lavori di scavo di quella galleria, tra le montagne della Garfagnana, essa avrebbe rappresentato un importante passo in avanti per lo sviluppo dell’intera vallata: anzi, quel progetto avrebbe rilanciato l’economia dell’alta Toscana, in un’area dove, ancora oggi, le genti, soprattutto quelle più anziane, vivono di quelle cose semplici che la terra e gli animali d’allevamento possono produrre. Eppure, come anche il Governo di Benito Mussolini aveva dichiarato, la battaglia dello sviluppo dell’Italia era iniziato e doveva essere vinto. Così, tante opere pubbliche videro la luce: ed anche la Garfagnana venne interessata da questo nuovo sviluppo. Soprattutto dal punto di vista dell’energia elettrica, ottenibile grazie alla forza di quei fiumi che attraversavano vallate e montagne, paesi e boschi. Gli stessi luoghi che, appena cinque anni dopo, vedranno la guerra ferma per un inverno intero, lungo quella Linea Gotica che a fatica gli Alleati riusciranno a sfondare pochi mesi prima della fine del conflitto. Fu così che, lungo un vecchio tratto della Strada Lodovica, che attraversa ancora oggi, in mezzo ai boschi, i paesi di Borgo a Mozzano, Diecimo, Valdottavo e Ponte a Moriano, lunga poco più di dieci chilometri, iniziarono i lavori.

L’idea degli ingegneri della ormai estinta SELT (Società Elettrica Ligure-Toscana), antesignana dell’ENEL, e che aveva in gestione gli impianti idroelettrici della zona, era quella di realizzare una sorta di galleria che avrebbe posto in collegamento il Torrente Turrite Cava con il Fiume Serchio posto molto più a valle, creando un invaso artificiale grazie alla costruzione di una diga che, con l’adiacente centrale elettrica, avrebbe portato la corrente ai paesi limitrofi. Opera ingegneristica molto complessa e ardita, soprattutto per le quote di lavoro, le difficoltà logistiche e il dover scavare un’intera montagna per decine di chilometri. I lavori procedettero lentamente e, spesso, anche azzardando operazioni di scavo con l’uso di esplosivo alla glicerina per accelerare il traforo. Inoltre, l’arrivo dell’inverno e dei primi temporali non fecero altro che peggiorare la situazione. E quando il 24 novembre 1939 piovve più del dovuto, quella che fino ad allora fu soltanto un’ipotesi a cui nessuno voleva pensare, si rivelò in tutta la sua drammaticità. Il terreno gonfio d’acqua cedette improvvisamente, facendo sprofondare la galleria, intrappolando al suo interno un’intera squadra di operai al lavoro: a nulla valsero i tentativi di fuga. L’acqua e la terra, trasformati in fango impenetrabile, bloccarono ogni via d’uscita: per i dieci operai rinchiusi là dentro iniziò così l’attesa dei soccorsi.

Iniziò una corsa contro il tempo per riuscire ad estrarre il gruppo di operai: tra loro, vi si trovava anche un dirigente dell’impresa di costruzioni Scardovi di Bologna, incaricata dei lavori, Alfredo Lepri. Ma la grande maggioranza erano padri di famiglia dei paesi della Garfagnana, assunti proprio in virtù della loro conoscenza di quei monti, di quelle valli. Sei giorni durò la loro agonia, poi l’aria all’interno finì e i dieci uomini, ormai esanimi, vennero estratti già morti. Subito dopo la tragedia alcuni accusarono le autorità e la dirigenza della SELT di non aver fatto abbastanza, che i soccorsi erano giunti in ritardo e, soprattutto, che non venne accettato l’aiuto offerto da altre industrie e fabbriche della zona. Ancora oggi, sul luogo della tragedia di quella notte, sorge un monumento, realizzato già nel 1942 con il marmo bianco proveniente dalle Alpi Apuane. Su di esso, sono incisi i nomi dei dieci operai che quel 24 novembre 1939 trovarono la morte, come si legge nell’epitaffio, “nell’ardua opera di asservire il flusso delle acque alla maggiore potenza d’Italia”. Caddero quel giorno: Desiderio Bertei, di Piazza al Serchio; Guglielmo Bertozzi, di Sassi; Amelio Giuliani, di Camporgiano; Giovanni Cassettari, di Piazza al Serchio; Giovanni Grassi, di San Romano di Garfagnana; Alfredo Lepri, di San Benedetto Val di Sambro; Renato Mucci, di Bologna; Guerrino Muccini, di Camporgiano; Amerigo Rocchiccioli, di Castelnuovo di Garfagnana; Antonio Borgia, di Minucciano. Soprattutto, quel giorno furono distrutte intere famiglie: a ricordo di tutti, valga quella che colse Guerrino Muccini (nella foto), che proveniva dal piccolo borgo di Poggio del Comune di Camporgiano. Lasciò sua moglie Assunta Rosa Giuliani e, soprattutto, tre figli piccoli di pochi anni, di cui il più piccolo di appena tredici mesi.

Il Famedio dei Caduti della Grande Guerra di Santa Croce

Ricavato all’interno della maestosa Basilica di Santa Croce in una cripta sotterranea edificata già alla fine del 1200, il Famedio dei Caduti Fiorentini venne realizzato nella seconda metà degli Anni Trenta, su progetto dell’Architetto Alfredo Lensi, dell’Ufficio delle Belle Arti di Firenze, per raccogliere e ricordare tutti i soldati della città toscana che diedero la vita nella Prima Guerra Mondiale e, successivamente, nei conflitti voluti dal Fascismo, la Guerra d’Etiopia e quella di Spagna. Realizzato con trentasette grandi arcate in pietra serena, particolare materiale pietroso di cui sono ricche le cave presenti nelle colline circostanti la città, il progetto iniziale venne inaugurato il 27 ottobre 1934, con la presenza delle massime autorità civili e militari cittadine: all’inizio, esso avrebbe custodito i resti dei Fascisti caduti per la rivoluzione, tra cui le spoglie di Giovanni Berta, considerato uno dei primi martiri del Fascismo. Solo in un secondo momento, ristrutturando la cripta sotterranea della Basilica di Santa Croce da cui si accede ancora oggi dal chiostro esterno, venne ideato il Famedio della Grande Guerra: grandi lastre di marmo nero, recano incisi i nomi dei 3672 Fiorentini caduti nel conflitto, mentre dietro l’altare, ricavato al centro, sono ricordati i militari decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Tra i decorati con la massima onorificenza, sono ricordati il Capitano di Corvetta Carlo Del Greco, Comandante del Sommergibile Nereide, affondato con tutto il suo equipaggio al largo di Pelagosa il 5 agosto 1915; il Colonnello Giulio Bechi, Comandante del 254° Reggimento Fanteria, Brigata Porto Maurizio, caduto a San Marco di Gorizia il 28 agosto 1917 mentre guidava un assalto alle trincee nemiche in testa ai suoi uomini; il Soldato Ugo Corsi, del 47° Reggimento, Brigata Ferrara, che presso Dosso Faiti, essendo quasi tutti gli ufficiali caduti o feriti, si mise alla testa di una nuova ondata di soldati per muovere all’attacco, fino a quando non venne colpito e ucciso dallo scoppio di una granata. I nomi di tanti altri militari circondano l’intero luogo: in ordine alfabetico, sono a perenne testimonianza del sacrificio di un’intera generazione di giovani, catapultati nel vortice della Prima Guerra Mondiale.

Completa il Famedio il Parco della Rimembranza e ubicato nel chiostro della Basilica: realizzato già nel 1923, esso fu voluto inizialmente per commemorare i dieci cittadini fiorentini che vennero decorati di Medaglia d’Oro. Furono piantati dieci cipressi e sotto ad ognuno collocata una targa con il nome del decorato, i cui nomi sono adesso anche ricordati all’interno del Famedio, scolpiti nel marmo in caratteri dorati subito dietro l’altare: Colonnello Giulio Bechi, Colonnello Luigi Caldieri, Soldato Ugo Corsi, Capitano di Corvetta Carlo Del Greco, Aspirante Ufficiale Federigo Grifeo, Soldato Edmondo Mazzuoli, Caporale Arduino Miccinesi, Tenente Leopoldo Pellas, Colonnello Emidio Spinucci, Maggiore Faliero Vezzani. Campeggia in mezzo al chiostro una grande statua raffigurante Dio Padre, opera di Baccio Bandinelli del 1549, su cui è stata posta un’iscrizione a ricordo dei Caduti: “Presso il tempio delle itale glorie, il Comune di Firenze vuol dedicato questo sacro recinto ai cittadini decorati di Medaglia d’Oro, eroicamente caduti nella Grande Guerra 1915-1918”.

L’Oratorio di San Rocco ai caduti della Divisione Alpina Monterosa

Sacrario Militare di PallerosoLa piccola frazione di Palleroso, facente parte del comune di Castelnuovo di Garfagnana, tra l’agosto-settembre 1944 e il marzo-aprile 1945 fu sede di osservatori e acquartieramenti della Divisione Alpina Monterosa, una delle quattro grandi unità volute da Benito Mussolini all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Abbiamo già raccontato le storie di alcuni di questi valorosi Alpini, come quella del Sottotenente Paolo Carlo Broggi, ucciso da una banda partigiana a Foce di Careggine il 7 novembre 1944 o dell’Alpino Umberto Lanzetta rimasto  vittima di un violento bombardamento americano contro la sua posizione. Oggi raccontiamo di un luogo, che si trova a Palleroso, a ricordo di tutti gli Alpini della Monterosa e di coloro che combatterono aggregati ai reparti delle Penne Nere. All’ingresso del piccolo centro abitato sorge, infatti, la Chiesa di San Rocco, edificata per venerare il Santo che risparmiò il paese dalla violenta peste del 1630. E fu proprio nei pressi dell’edificio religioso che, ad ottobre 1944, prese postazione il Comando del Battaglione Brescia, del 2° Reggimento Alpini.

Sacrario Militare di PallerosoLa guerra non risparmiò gli abitanti di Palleroso: all’inizio, cominciò a cadere qualche sporadica bomba d’aereo, ma quando le forze italo-tedesche tentarono una manovra d’alleggerimento durante il Natale 1944 verso Barga e Gallicano (Operazione Wintergevitter), gli Americani colpirono violentemente tutto il settore della Valle del Serchio, bombardando ripetutamente anche Palleroso. Il nuovo anno 1945 portò altra distruzione: a febbraio, alcune bombe raggiunsero Novicchia, una località vicino Palleroso, uccidendo trenta civili che tentavano di mettersi al riparo all’interno di un cascinale. Fu solo il 18 aprile 1945 che la guerra, almeno per Palleroso, ebbe termine, quando venne raggiunta dalle avanguardie delle forze alleate: adesso, l’unico pensiero era ricostruire il paese e dare una degna sepoltura ai tanti morti. Passarono gli anni e nel 1970, grazie all’interessamento di Don Adelmo Tardelli e dell’Associazione Alpina Monterosa, che riuniva gli ex combattenti della Divisione, all’interno della Chiesa di  San Rocco venne ospitato il Sacrario alla memoria degli Alpini caduti: delle grandi lapidi marmoree, raccolgono così i nomi di oltre 770 soldati , in ordine alfabetico, caduti tra le valli e i monti della Garfagnana. Tra loro, anche gli Alpini di cui abbiamo già raccontato: Paolo Carlo Broggi e Umberto Lanzetta si sono così riuniti, anche se solo simbolicamente, ai loro fratelli in armi.

Il Tenente Luigi Gori e i bombardamenti sul Piave

Gori e PaglianoLuigi Gori, con all’attivo quattro Medaglie d’Argento ed una di Bronzo al Valor Militare, rappresentò, nel corso del primo conflitto mondiale, uno dei primi pionieri della nascente specialità aeronautica, volando sui Bombardieri Caproni Ca3 e rendendosi protagonista di eccezionali imprese. Originario di Pontassieve, in provincia di Firenze, dove era nato nel 1894, all’entrata in guerra dell’Italia, dopo gli studi di ragioneria, chiese volontariamente di essere assegnato al neocostituito Battaglione Aviatori, in qualità di Allievo Ufficiale. Assegnato dapprima all’8a Squadriglia con il grado di Tenente, Luigi Gori farà conoscenza, presso il reparto di destinazione, con il suo parigrado Maurizio Pagliano: nascerà una forte amicizia ed un grande affetto fraterno, che porterà i due piloti a condividere numerose imprese di guerra, fino al tragico e comune destino durante la resistenza sul Fiume Piave. Assieme a Pagliano, ai comandi dei Caproni Ca3, il Tenente Gori diverrà uno dei primi a sperimentare il bombardamento notturno senza ausili alla navigazione aerea, riuscendo a colpire con estrema precisione le posizioni tenute dal nemico. Sempre al centro della mischia, primo tra i primi in formazione, giunse per Luigi Gori la prima Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Vero pilota da battaglia, ricco di singolari qualità, riusciva ad ottenere sempre da qualunque apparecchio, anche imperfetto o danneggiato, la massima efficacia di manovra e di tiro, eseguendo ardite ricognizioni fotografiche ed importanti azioni offensive sul territorio nemico. Cielo del fronte Giulia, della Sava e dell’Hermada, ottobre 1916-agosto 1917″.

Caproni Ca3E poi vennero le epiche imprese. Come quella compiuta assieme a Pagliano l’11 maggio 1917: contravvenendo agli ordini ricevuti, i due piloti decollarono alla volta di Pola dall’Aeroporto di Pordenone, in condizioni di scarsa visibilità e senza alcun tipo di scorta. Era loro intenzione dimostrare, con questo volo, la fattibilità di raggiungere obiettivi lontani, per effettuare di notte incursioni e bombardamenti notturni, senza che venissero corsi eccessivi rischi, tanto da venire scelti da Gabriele D’Annunzio per compiere un raid su Vienna tra ottobre e novembre del 1917. Volo che non verrà mai effettuato per lo sfondamento del fronte a Caporetto e il conseguente ridispiegamento della Squadriglia di bombardieri per la difesa del Piave. Ma quei giorni erano ancora lontani e niente lasciava presagire la tragedia che sarebbe accaduta. In giugno, intanto, per alcune azioni sul Carso, si guadagnò la sua seconda Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Prode fra i prodi Aviatori della squadriglie da bombardamento, sfidando volontariamente l’ignoto in una pericolosa navigazione e le difese antiaeree nemiche, in una brumosa notte illune, eseguiva una brillante ed importante azione di bombardamento su territorio nemico, esempio mirabile di entusiasmo, di ardimento, e di fermezza d’animo. Cielo del Carso, 26 giugno 1917″. Grazie a Luigi Gori era nato il bombardamento notturno. Infine, la sua terza Medaglia la guadagnò a inizio ottobre, quando, con lo stesso D’Annunzio, la coppia Gori-Pagliano raggiunsero la base navale austriaca di Cattaro, causando ingenti danni alle infrastrutture e alle navi ormeggiate: “Su apparecchi terrestri, percorrendo un lungo tratto in mare aperto, in condizioni avverse, riusciva con altri, a raggiungere le Bocche di Cattaro ed a colpire con grande esattezza ed efficacia gli obiettivi navali, ritornando con tutti gli altri alla base, nonostante le deviazioni inevitabili nella crescente foschia. Bocche di Cattaro, 4-5 ottobre 1917″.

20200605_175017E poi venne Caporetto. Tutti gli aerei disponibili vennero schierati a difesa delle truppe di terra, per coprirne la ritirata e attaccare senza sosta gli Austriaci e i Tedeschi che avevano sfondato il fronte italiano e rischiavano di dilagare in tutto il Veneto, fino alla Pianura Padana. Giunse, per l’eroica difesa, la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Abilissimo pilota d’aeroplano da bombardamento, dimostrando singolare ardire e serenità durante l’offensiva austro-germanica bombardava importanti obiettivi e conduceva con grande ardimento il suo velivolo a bassissima quota, mitragliando le truppe nemiche tra l’infuriare delle mitragliatrici e delle artiglierie avversarie. Esempio mirabile di calma, entusiasmo, tenacia e ardimento. Cielo di Tolmino, Piave, Trentino, 25 ottobre-dicembre 1917″. Il 30 dicembre 1917, il Tenente Luigi Gori decollava per la sua ultima missione. Sul Caproni Ca3 trovò posto l’inseparabile amico e compagno Maurizio Pagliano, unitamente ai due Mitraglieri di bordo, Giacomo Caglio e Arrigo Andri: decollati da San Pelagio e diretti, per un’azione di bombardamento, sull’Aeroporto di Godega di Sant’Urbano, il loro velivolo venne abbattuto nei cieli sopra Susegana dall’Asso austriaco Benno Fiala von Fernbrugg, che alla fine del conflitto verrà accreditato di ventotto abbattimenti. Alla sua Memoria verrà conferita la quarta Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Bombardiere abilissimo, durante il volo colpiva per ben 34 volte il nemico con bombe e con la mitraglia, portando il disordine e la morte tra le sue file. Nel compiere un’audace missione di guerra, mentre, dando mirabile esempio di cooperazione colla fanteria, mitragliava da bassa quota con l’abituale ardimento l’avversario, attaccato da numerosi apparecchi da caccia, veniva, dopo lunga e strenua lotta, abbattuto con l’apparecchio in fiamme. Piave, 30 dicembre 1917″.