Ad Angela Fresu, la vittima più piccola della Stazione di Bologna

La magia delle canzoni di Fabrizio De André era (ed è) racchiusa in una parola: allusione. Senza mai citare persone e fatti reali, concreti e tangibili, bastava una strofa affinché quell’allusione divenisse davvero reale. E questo accade soprattutto in Se ti tagliassero a pezzetti, tanto che, se ai meno attenti può ricordare solamente un inno all’amore e alla libertà, in una strofa quasi sussurrata nasconde, invece, una delle stragi più sanguinose che colpirono l’Italia e i suoi cittadini: “T’ho incrociata alla stazione, che inseguivi il tuo profumo, presa in trappola da un tailleur grigio fumo. I giornali in una mano e nell’altra il tuo destino, camminavi fianco a fianco al tuo assassino”. Perché quella stazione, in cui il cantautore incontra questa ragazza senza un nome, non è altro che quella di Bologna, in una estate già macchiata del sangue di innocenti, inabissatisi nel Mar Tirreno, tra le Isole di Ponza e di Ustica. Era il 2 agosto 1980 quando un’intera città addormentata dal caldo e dall’afa, dovette svegliarsi improvvisamente, macchiata del sangue di ottantacinque morti e di oltre duecento feriti, dilaniati da oltre venti chili di tritolo esplosi nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione. In carcere, è vero, sono finiti i colpevoli, o almeno quelli che la Magistratura ha ritenuto tali. Ma non mancano, dopo oltre quarant’anni, specie a ridosso dell’anniversario, nuovi scoop, nuove rivelazioni, nuovi testimoni che, improvvisamente, hanno qualcosa da dichiarare.

Tra quanti quel maledetto giorno furono investiti in pieno dall’esplosione, dall’onda d’urto e dalle macerie della stazione crollata, vi fu anche una bambina, di tre anni, Angela Fresu, che si trovava assieme alla sua mamma Maria, in attesa di salire sul treno: erano a Bologna perché stavano partendo per le vacanze, qualche giorno lontano dal caldo per raggiungere il Lago di Garda, su al nord. Ma qualcuno decise che quel viaggio non si doveva compiere, così come quello delle altre vittime. La storia della piccola Angela ricorda quella di un’altra giovane vita spezzata, quella di Giuliana Superchi che, contenta per l’inizio delle vacanze estive, era partita anche lei da Bologna per raggiungere suo papà giù in Sicilia. Ma non in treno, in aereo. Quel DC-9 della Compagnia Itavia che, ormai prossimo all’Aeroporto di Punta Raisi, scomparve improvvisamente dagli schermi radar dei controllori civili e dell’Aeronautica Militare, infilandosi (e qui il destino giocò il suo brutto scherzo), nella Fossa del Tirreno, a quasi 3800 metri sotto la superficie del mare. Perché come per Giuliana, anche di Angela non venne rinvenuto un corpo: si disse, allora, che madre e figlia si trovavano praticamente nel punto zero, a brevissima distanza, se non affianco, della borsa che conteneva l’esplosivo. Polverizzate, scomparse per sempre senza lasciare la benché minima traccia. Più tardi, un lembo di pelle rinvenuto tra le macerie verrà attribuito a Maria Fresu, unico frammento rimasto di una donna adulta.

E come ogni anno, a Gricciano di Montespertoli, sulle colline intorno a Firenze, una comunità intera ricorderà quella giovane madre e la sua bambina, che dalla Sardegna, assieme alla loro famiglia, si erano trasferite in Toscana. E come ogni anno, qualcuno deporrà un nuovo mazzo di fiori, davanti a quella grossa lapide pesante più di un macigno, che ricorda, una per una, le ottantacinque vittime: quando hanno ricostruito il padiglione crollato della stazione, volutamente l’enorme squarcio causato dall’esplosione è stato richiuso solo con un vetro, lasciando la parte aperta, come una ferita cicatrizzata, ma non rimarginata. Perché Bologna è questa: una città doppiamente ferita in quella calda e torrida estate del 1980, dapprima con il DC-9 decollato in ritardo dall’Aeroporto Guglielmo Marconi e poi con ventitré chili di tritolo nella sala d’aspetto di seconda classe della Stazione Centrale. Non rimase nulla di Maria e Angela: la bianca bara della bambina di Montespertoli era vuota, il giorno dei funerali. Nessun corpo su cui piangere, scomparsa per sempre tra la polvere e le macerie della stazione. E forse è stato meglio così, piuttosto che dover riconoscere un piccolo corpo dilaniato, mutilato, bruciato, fatto a pezzi. E allora ecco che torna alla mente quella canzone di Fabrizio De André, con la protagonista senza nome, e il destino scritto in note della piccola Angela: “Ma se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe. Il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna, la luna, tesserebbe i capelli e il viso e il polline di Dio, di Dio il sorriso”.

Un triplice omicidio dietro la Stay Behind jugoslava

Un orribile triplice omicidio si ritrovarono di fronte Polizia e Carabinieri la sera compresa tra il 24 e il 25 agosto 1972: in un canalone, fuori strada, a bordo di una vettura, vennero rinvenuti i corpi senza vita di due adulti, un uomo e una donna, e di una bambina, all’apparenza di circa dieci anni. Ma l’aspetto orribile delle loro morti fu il metodo adottato: tutti freddati con due colpi di pistola alla testa. Una vera e propria esecuzione scriveranno i giornali, dopo le conferme delle autopsie: inconfondibili i fori lasciati dai proiettili calibro 7.65 sparati da una mai ritrovata pistola. Sul luogo del triplice omicidio, però, a bordo di quella stessa vettura, gli investigatori rinvennero un silenziatore, prova che l’omicida, almeno in un primo momento, si trovasse a bordo con le vittime. C’è chi parlò di omicidio passionale, dato che la bambina, di nome Rose Marie, 9 anni, era figlia naturale della donna, Tatiana Baharovic, ma non dell’uomo alla guida, Stjepan Sevo: le ricerche si indirizzarono verso l’ex marito di Tatiana, ma senza esito. Perché, forse imbeccati da qualcuno, forse per evitare incidenti internazionali, in molti finsero di vedere chi era davvero Stjepan Sevo e ciò che stava accadendo, in tutta Europa, in quel 1972: membro del movimento ustascia jugoslavo, fervente oppositore del regime di Tito, tra i principali animatori della Fratellanza Rivoluzionaria Croata. Ma anche, a detta di alcuni, membro della Stay Behind jugoslava, in stretto collegamento con la struttura clandestina italiana, Gladio, resa nota solo nel 1990. Così ha scritto il Giornalista d’Inchiesta Paolo Cucchiarelli ne Il segreto di Piazza Fontana, durante la ricostruzione dei movimenti compiuti da alcune partite di esplosivo militare lungo il confine orientale italiano, tra Italia e Jugoslavia: “Il 1972 fu un anno cruciale per gli Ustascia. Numerosi furono gli attacchi subiti. Il loro capo in esilio, Branko Jeli, venne ucciso a Berlino nel maggio da agenti dei servizi segreti jugoslavi”. E a proposito dell’omicidio della famiglia Sevo, scriverà: “A San Donà di Piave un membro della formazione ustascia, Stjepan Sevo, fu ucciso con tutta la famiglia da assassini professionisti, che usarono il silenziatore. Dietro quella carneficina c’era la mano dei servizi segreti jugoslavi”.

Ma già il 26 agosto, il Corriere della Sera accantonò la pista passionale, per deviare su quella politica. Quella pista che Cucchiarelli ha ripreso quasi quarant’anni dopo, mettendo sotto una nuova luce quel periodo torbido che sono stati gli Anni Sessanta e Settanta italiani, di quella strategia della tensione che destabilizzò la Repubblica per stabilizzarla ancora di più, per non far compiere scelte politiche e di alleanze che non erano viste di buon occhio all’estero, soprattutto al Governo degli Stati Uniti d’America e alla NATO. Perché se la famiglia Sevo si trovava nei pressi di San Donà di Piave ufficialmente in vacanza, provenienti dalla Germania, dove si erano stabiliti e lavoravano, quel confine orientale, distante solo pochi chilometri, nascondeva il mistero e la verità di un delitto tanto feroce quanto angosciante. Scriveva infatti il quotidiano milanese: “La risposta, quasi certamente, bisogna andare a cercarla nelle nebbie dentro le quali si rivelano ancora i fantasmi della guerra, nella spirale di un odio che non finisce mai. I giornalisti jugoslavi oggi a San Donà di Piave, scuotevano la testa. Noi, ha detto uno, possiamo già rimettere in tasca i taccuini degli appunti. Sappiamo tutto. E’ affare di Ustascia. Ma perché questi Sevo, fuoriusciti o figli di fuoriusciti, nemici del regime jugoslavo, si sarebbero portati proprio in questa zona, così vicina alla frontiera? Proprio perché la frontiera è vicina. Si incontrano qui con i loro amici, si passano armi, denaro, esplosivi”. Già, anche esplosivi. Forse quello stesso materiale esplodente che, passato di mano in mano, ha ucciso anche sul territorio italiano. Iniziò, pertanto, a essere presa in esame una neanche troppo strana pista jugoslava, che si sarebbe intrecciata ben presto con alcune delle ombre più inquietanti di tutta la strategia terroristica che insanguinò l’Italia, almeno fin dal dicembre 1969, quando ad esplodere fu la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, la Banca Nazionale del Lavoro e l’Altare della Patria a Roma.

Tanto che l’unico terrorista auto-accusatosi di una strage, Vincenzo Vinciguerra, autore della bomba di Peteano del maggio 1972, dove restarono uccisi tre militari dell’Arma dei Carabinieri, dal carcere ha ribadito come, sempre nel libro-inchiesta di Cucchiarelli, “sarebbe il caso di chiedersi se certi attentati all’epoca compiuti in territorio jugoslavo e attribuiti agli estremisti croati, agli Ustascia mortali nemici di Tito, non facessero in realtà parte di qualche piano di destabilizzazione della vicina Repubblica Federale Jugoslava eseguito dai servizi segreti americani ed europei”. Ma tutto questo andava ben oltre: proprio lungo il confine orientale, nei boschi e in località più o meno isolate, la rete clandestina che avrebbe dovuto attivarsi in caso di invasione dall’est, predispose una serie di depositi e armerie interrate, dentro grotte, caverne, anfratti. E, forse, qualcuno che ben conosceva la loro ubicazione, nonostante nessun attacco dall’oriente fosse avvenuto, decise che quegli esplosivi andassero impiegati ugualmente. Ma non contro un esercito invasore, per compiere azioni di sabotaggio e resistenza. Ma per compiere attentati. E una cosa è certa: all’indomani dell’attentato contro i militari dell’Arma dei Carabinieri, qualcuno cercò di capire se quell’esplosivo provenisse da uno dei tanti depositi rimasti, fino ad allora, neanche troppo segreti.

Emanuela Loi, dalla Sardegna a Via d’Amelio

Emanuela LoiLa Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria le venne conferita appena un mese dopo la sua morte. A lei come agli altri suoi colleghi che rimasero dilaniati da quell’esplosione avvenuta alle 16.59 di un caldo pomeriggio di fine luglio. Il giorno 19 dell’anno 1992. Novanta chilogrammi di una miscela mista di tritolo, T4 e pentrite vennero impiegati dalla mafia per spezzare la vita del Magistrato Paolo Borsellino e di cinque dei sei agenti della Polizia di Stato adibiti alla sua scorta. Tutti quanti caduti, verrà detto i giorni dei solenni funerali cui parteciparono migliaia di Palermitani onesti, e che verrà ripetuto come un tamburo ad ogni commemorazione, ad ogni ricorrenza, nell’espletamento del loro servizio, con coraggio e dedizione, fino al più supremo sacrificio, quello della vita. Ma Emanuela Loi verrà in seguito ricordata anche, e soprattutto, per essere stata la prima donna della Polizia di Stato a restare uccisa durante il servizio: lei, che era stata tra le prime donne a far parte dei nuclei scorte, fino ad allora incarico ricoperto esclusivamente da personale maschile.

Emanuela LoiProveniva dalla Sardegna, da un piccolo comune in provincia di Cagliari, Emanuela Loi: lasciò la sua terra per seguire quel suo sogno, vestire la divisa della Polizia di Stato ed essere al fianco di chi aveva bisogno di aiuto. Irriducibile e decisa, la giovane Emanuela, che quel tragico 19 luglio 1992 aveva appena venticinque anni di età, si mise subito in luce agli occhi dei superiori e dei colleghi in ogni incarico che le veniva affidato. Fu lei a far parte della scorta della Senatrice Pina Maisano Grassi, il cui marito, Libero Grassi, fu tra i primi a ribellarsi al pizzo degli uomini di Cosa Nostra, pagando questa sua voglia di riscatto con la vita e venendo assassinato il 29 agosto 1991. Il testimone venne raccolto dalla vedova che ne portò avanti le battaglie con coraggio e passione. Ad Emanuela Loi spettò anche il compito di piantonare la casa di Sergio Mattarella, considerato nel mirino della mafia dopo l’assassinio del fratello Piersanti, in carica quale Presidente della Regione Sicilia. Neanche quando le venne affidato il servizio di scorta del Giudice Paolo Borsellino si tirò indietro: lo seguiva come un’ombra, in Procura, in tribunale, a lavoro; ma anche al ristorante, dall’anziana madre, per tutta Palermo, pistola in mano e sguardo vigile.

Via d'AmelioCome quel 19 luglio 1992. Appena tre settimane erano passate dalla barbara uccisione del collega e amico Giovanni Falcone, assieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre Agenti di scorta. E l’unico modo per non pensarci era andare avanti. Andare avanti per la Palermo che non voltava lo sguardo, che non lo abbassava di fronte agli uomini di Cosa Nostra e che aveva il coraggio di ribellarsi. Come Libero Grassi. Come Giovanni Falcone. E come Paolo Borsellino. Molto probabilmente nessuno si accorse dell’esplosione. I corpi dilaniati e fatti a pezzi vennero pietosamente ricomposti per i funerali, cui una folla di migliaia di cittadini di Palermo prese, forse per la prima volta, davvero coscienza che la mafia altro non era che un cancro da combattere ed estirpare. Lo Stato, a modo suo, volle onorare Emanuela Loi conferendole, così come alle altre vittime, la Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria: “Preposta al servizio di scorta del giudice Paolo Borsellino, pur consapevole dei gravi rischi cui si esponeva a causa della recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con grande coraggio e assoluta dedizione al dovere. Barbaramente trucidata in un proditorio agguato di stampo mafioso, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle Istituzioni. Palermo, 19 luglio 1992”.

I Nuclei Armati Proletari e l’uccisione dell’Agente Graziosi

Claudio GraziosiQuando riconobbe la pericolosa terrorista evasa dal carcere di Pozzuoli, anche se libero dal servizio, l’Agente di Pubblica Sicurezza Claudio Graziosi, non esitò un attimo a bloccarla per trarla in arresto: Maria Pia Vianale, il 22 gennaio 1977, assieme alla complice Franca Maria Salerno, due esponenti dei NAP, i Nuclei Armati Proletari riuscì ad evadere dal carcere femminile di Pozzuoli e a far perdere le sue tracce. I NAP, nati da una profonda scissione che caratterizzò la Sinistra Extraparlamentare negli Anni Settanta, dopo la decisione di Lotta Continua di non perseguire la strada della lotta armata, furono attivi principalmente nell’Italia Centro-Meridionale, rivolgendo la loro attenzione essenzialmente al mondo carcerario. Era il 22 marzo quando l’Agente Graziosi riconobbe in quella donna la terrorista evasa tre mesi prima: era libero dal servizio, erano circa le 23.00 ed entrambi si trovavano su un autobus per le vie della Capitale. Senza farsi notare, si avvicinò all’autista del mezzo pubblico e, dopo essersi qualificato quale Agente di Pubblica Sicurezza, fece deviare il mezzo verso il più vicino Commissariato di Polizia. E quello che accadde dopo, è diventata cronaca dei quotidiani, dei saggi dedicati agli anni di piombo in Italia, delle trasmissioni televisive. E delle commemorazioni pubbliche. Perché accadde, a bordo di quell’autobus romano, che altri passeggeri iniziarono a protestare animatamente sulla deviazione presa dall’autista: a Claudio Graziosi non rimase altro che uscire allo scoperto e cercare di bloccare Maria Pia Vianale. E quasi ci riuscì.

Omicidio Agente GraziosiQuello che non aveva previsto era che la pericolosa terrorista non fosse sola, ma in compagnia di un altro appartenente ai Nuclei Armati Proletari, Antonio Lo Muscio che, estratta da sotto il cappotto una pistola, freddò il giovane appartenente alle Forze dell’Ordine sparandogli alla schiena. Sotto la minaccia delle armi, l’autista del mezzo pubblico fermò l’autobus e i due assassini si diedero alla fuga. Scrive il Giornalista Sergio Zavoli nel suo celebre libro La notte della Repubblica: “C’erano cinque persone dentro l’autobus, quella sera, e lei si era seduta proprio di fronte a lui, con tanti posti che c’erano; ma era perché così, lei aveva le spalle coperte. Quando la vide, lei leggeva i giornaletti, lui si alzò immediatamente, andò dall’autista e gli disse che sull’autobus c’era una terrorista molto pericolosa e che si sarebbe dovuto fermare se avesse incontrato una volante per strada. Se questo non fosse avvenuto doveva portarsi alla caserma di polizia più vicina. Graziosi tenta di bloccare la Vianale, che resta ferita; ma viene freddato con un colpo di pistola alla schiena da un altro nappista”. Partì una frenetica caccia ai due terroristi, quella notte: decine di pattuglie dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia raggiunsero il luogo della sparatoria,non potendo fare altro che constatare la morte di Claudio Graziosi, Agente romano di 21 anni. Nelle frenetiche ricerche, durante una sparatoria venne ucciso per errore Angelo Cerrai, Guardia Zoofila di Roma che, in borghese, si era messo alla rincorsa dei due ricercati: pistola in mano, venne scambiato per un terrorista dagli Agenti accorsi e, non avendo udito le intimazioni di fermarsi, venne crivellato di colpi.

Antonio Lo muscioLa fuga della Vianale e di Lo Muscio ebbe termine solo quattro mesi dopo. Scrive ancora Zavoli: “Il 1° luglio, Maria Pia Vianale, Franco Salerno e Antonio Lo Muscio sono fermati dai Carabinieri sulla scalinata di San Pietro in Vincoli. Lo Muscio si dà alla fuga sparando: muore sotto il fuoco dei Carabinieri. Le due donne vengono arrestate e sottoposte a un duro interrogatorio. Antonio Lo Muscio è l’ultimo nappista ucciso in uno scontro a fuoco. I Nuclei Armati Proletari di fatto non esistono più; i superstiti ancora a piede libero si sbandano o confluiscono nelle Brigate Rosse”. Due anni dopo la sua uccisione, il Presidente dell Repubblica Sandro Pertini gli conferì la Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria: “In abiti civili, notate a bordo di un autobus cittadino due persone appartenenti ad organizzazione eversiva, con prontezza e decisione, al fine di assicurarli alla giustizia, invitava il conducente a dirottare il mezzo verso un Compartimento di Polizia. Costretto dalle circostanze, non esitava coraggiosamente a rivelare la propria identità ma, proditoriamente colpito dal fuoco di uno dei terroristi, cadeva mortalmente ferito pagando con la vita il suo alto senso di dedizione al dovere. Roma, 22 marzo 1977″.

La strage di Natale dei Poliziotti di Udine

Poliziotti di Udine“Componente l’equipaggio di una volante, avuta notizia che si era attivato il sistema d’allarme di un esercizio commerciale, accorreva prontamente sul posto e, notato un involucro in fiamme appeso alla serranda del locale, con pronta determinazione rimaneva a presidiare la zona per salvaguardare l’incolumità di eventuali passanti. Ma, a seguito dell’improvvisa esplosione dell’ordigno, veniva investito da una gragnuola di schegge, rimanendo ferito mortalmente. Splendido esempio di elette virtù civiche e altissimo senso del dovere. Udine, 23 dicembre 1998”. Questa la motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Civile che venne conferita il 19 marzo 1999 dall’allora Presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro alla memoria di tre uomini appartenenti alla Polizia di Stato. Si trattava del Sovrintendente Adriano Ruttar e degli Assistenti Paolo Cragnolino e Giuseppe Zanier, vittime di un vile attentato a pochi giorni dal Natale del 1998 nella città di Udine, dove i tre prestavano servizio presso la locale Questura. Quando gli Agenti montarono di turno, il giorno prima della Vigilia, mai avrebbero pensato alla tragedia che sarebbe occorsa poche ore dopo. Alle 06.00 del mattino l’allarme automatizzato di un negozio del centralissimo Viale Ungheria fece convergere alcune volanti, unitamente al proprietario dell’esercizio commerciale.

Strage di Udine1In tutto furono due le auto che, allertate per radio della Questura, raggiunsero il luogo indicato. Quattro agenti, Adriano Ruttar, Paolo Cragnolino, Giuseppe Zanier e Carlo Alberto Bianco, notarono del fumo che fuoriusciva da un cumulo di carte vicine alla saracinesca. Fu una frazione di secondi: solo l’Assistente Capo Bianco, rimasto indietro per prendere l’estintore a bordo della propria volante per spegnere il principio di incendio, rimase ferito, seppur gravemente. Gli altri tre, vennero improvvisamente investiti da una deflagrazione potentissima, che colpì i tre Poliziotti con una miriade di schegge, mortali come proiettili. Anche il titolare del negozio venne raggiunto dallo scoppio, rimanendo anche lui ferito. Già poche ore dopo la tragedia che sconvolse l’intera città di Udine proprio poche ore prima dei festeggiamenti del Natale, i quotidiani fornivano una prima ricostruzione. Così, a tal proposito, La Repubblica: “L’ordigno, una bomba a mano di fabbricazione ex-jugoslava, era stato appeso alla saracinesca del negozio con la sicura fermata da un nastro adesivo giallo. Sotto l’ordigno gli attentatori avevano acceso un fuoco, e il calore ha provocato la lenta fuoriuscita della sicura e quindi l’esplosione della bomba proprio mentre i quattro poliziotti ed il proprietario arrivavano sul posto”. Non un’esplosione accidentale, quindi, magari dovuta a qualche vecchia bombola di gas, ma un vero e proprio attentato, il cui scopo principale era quello di uccidere quante più persone possibile.

Strage di Udine.jpgImprovvisamente, non solo il Nord Italia, ma tutto il Paese intero, scoprirono un nuovo tipo di criminalità organizzata, che non si faceva scrupoli nel compiere azioni dimostrative come una strage, capace di colpire indistintamente, proprio come una bomba: l’ordigno, infatti, avrebbe potuto colpire chiunque si trovasse a transitare in Viale Ungheria, in giorni frenetici come quelli a ridosso delle festività natalizie. Ci vollero quasi due anni di ininterrotte indagini per scoprire i mandanti, chi volle la morte dei tre Agenti nel dicembre 1998: la mafia albanese, che aveva instaurato a Udine, così come nel resto del Friuli Venezia Giulia, un mercato legato alla prostituzione dall’Est Europa. Ma le indagini dei colleghi dei Poliziotti uccisi scoprirono un Vaso di Pandora che, forse, non avrebbero mai voluto scoperchiare: alcuni agenti senza scrupoli, vennero indagati per presunte connivenze con i clan italo-albanesi che, in cambio di facili guadagni, avrebbero informato i criminali su orari e date delle retate antiprostituzione. Una strage ben studiata, dai chiari messaggi intimidatori contro tutti quei servitori dello Stato onesti che avrebbero combattuto una lotta senza quartiere a chi delinqueva in tutto il Friuli. Una storia, scabrosa, quella di Udine, che fece per un attimo tornare alla mente i fatti di sangue legati alla Uno Bianca in Emilia Romagna, i cui appartenenti erano, per l’appunto, uomini dello Stato: l’allora Giudice per le Indagini Preliminari Nunzio Sarpietro parlò chiaramente di pezzi delle istituzione che avrebbero  informato i clan prima dei blitz contro il racket della prostituzione.

Villarbasse, l’ultima condanna a morte dell’Italia

Strage VillarbasseFu l’ultimo crimine, in Italia, ad essere punito con la pena di morte, prima della sua completa abolizione sancita con il Decreto Legislativo del Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola dell’11 aprile 1947. A Villarbasse, piccolo comune alle porte di Torino, la sera del 20 novembre 1945 si consumò una delle più efferate stragi dell’Italia appena uscita dalla guerra: non per ritorsione o per vendetta a fine conflitto, ma per rapina. Tutto ebbe inizio intorno alle ore 19.00, quando all’interno della Cascina Simonetto, quattro delinquenti fecero irruzione spianando le armi e minacciando i presenti. Colto di sorpresa, il proprietario, Massimo Gianoli, di professione avvocato ed ex dirigente dell’AGIP prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, cercò di consegnare il denaro e altri oggetti preziosi che aveva con sé. Assieme a lui, vennero sequestrati la sua domestica, Teresa Delfino, mentre, nell’adiacente abitazione, sempre di proprietà di Gianoli, furono immobilizzati altre sei persone: Antonio Ferrero, sua moglie Anna Varetto, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, il bracciante Marcello Gastaldi. Sebbene sotto la minaccia delle armi, Morra, che durante la guerra aveva guidato una banda partigiana, tentò una strenua resistenza. Ad uno dei malviventi cadde il fazzoletto che ne celava il viso: per non correre il rischio di essere scoperti (uno di essi aveva per un po’ di tempo lavorato alla cascina), gli otto inermi vennero ad uno ad uno uccisi a bastonate, prima che i loro corpi, con le mani legate dietro la schiena con del filo di ferro, fossero gettati all’interno di una cisterna.

Fucilazione VillarbasseIl massacro, però, non finì qui. Pochi minuti dopo, altri due uomini, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, i rispettivi mariti delle due domestiche, allarmati dal silenzio proveniente dalla cascina dell’Avvocato Gianoli, si erano recati alla ricerca delle proprie consorti, prima di essere anche loro barbaramente uccisi. Venne risparmiato soltanto un bambino di due anni, ritenuto troppo piccolo affinché potesse riconoscere i rapinatori. In questa euforia di morte, vennero sottratte circa 200.000 lire, alcuni preziosi in oro ed altri oggetti di poco valore. La macabra scoperta avvenne soltanto il 28 novembre successivo, dopo che le infruttuose ricerche dei giorni precedenti avevano lasciato presagire la possibilità di un rapimento di massa a fini di riscatto. Intanto, gli assassini erano tornati alla vita di tutti i giorni: uno di essi, Pietro Lala, siciliano, verrà ucciso in circostanza mai del tutto chiarite in località Mezzojuso, nei pressi di Palermo. Le indagini brancolarono, letteralmente, nel buio, fino a quando un gruppo di Carabinieri, guidati dal Sottotenente Armando Losco, riuscirono a risalire ad uno degli autori della strage, Giovanni D’Ignoti, anche lui siciliano ed emigrato in Piemonte alla ricerca di fortuna. Quello che trovò, invece, fu una scarica di fucileria alla schiena. Utilizzando quello che in gergo poliziesco si chiama lo “stratagemma del saltafosso”, gli uomini del Sottotenente Losco fecero credere all’arrestato di essere l’ultimo della banda che si trovasse ancora in libertà, ma che al tempo stesso gli altri complici avessero indicato lui come autore del massacro di dieci persone inermi.

Strage Villarbasse1Sentitosi scoperto e tradito, D’Ignoti aprì la bocca, rivelando i nomi degli altri presenti alla strage: Francesco La Barbera, Giovanni Puleo e lo stesso Lala, nel frattempo ucciso in Sicilia. Il 5 luglio 1946 i tre assassini vennero condannati a morte mediante fucilazione: lo stesso Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola si rifiutò di concedere la grazia e così, legati mani e piedi ad una sedia di legno, all’interno del Poligono di Tiro di Basse di Stura, il 4 marzo 1947 un plotone costituito da Agenti di Pubblica Sicurezza aprì il fuoco sugli ultimi tre condannati a morte italiani. Così scrisse La Nuova Stampa nella locale cronaca cittadina della città di Torino: “Quando la maggiore parte dei lettori avrà sott’occhio questo giornale, i massacratori di Villarbasse avranno già scontato con la vita il loro orrendo crimine. Nella serata di ieri era giunta alla Magistratura comunicazione dalla Capitale che l’esito della domanda di Grazia, presentata a suo tempo dagli assassini di Cascina Simonetto al Capo della Repubblica, era stata esaminata […]. Poco dopo la mezzanotte un cablogramma da Roma avvisava che il Capo dello Stato aveva rifiutato la Grazia ai tre criminali e la Procura Generale presso la Corte d’Appello dava ordine alla Questura di procedere immediatamente all’esecuzione della sentenza di morte pronunciata dall’Assise di Torino il 5 luglio 1946”. Il giorno seguente, 5 marzo, presso Forte Bastia a La Spezia, tre appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana e ritenuti collaborazionisti e responsabili di delazioni nei confronti di cittadini ebrei, furono fucilati a seguito di una sentenza pronunciata già nel maggio 1946: fu questa l’ultima condanna a morte eseguita.