Le ardite imprese del Tenente Connello Fortunato Federigi

Assolse inizialmente gli obblighi di leva come ufficiale di complemento nel 3° Reggimento Bersaglieri, con il grado di Sottotenente, prima di entrare a domanda nella Regia Aeronautica, la Forza Armata che vedrà Fortunato Federigi scalarne i vertici, fino ad assumere il comando del 41° Gruppo Autonomo da Bombardamento e venendo insignito più volte al Valor Militare. Nato a Serravezza, in provincia di Lucca, nel 1901, non riuscì a prendere parte alla Grande Guerra nonostante la volontà di vestire l’uniforme: partì, però, volontario a Fiume come Legionario assieme a Gabriele d’Annunzio, mostrando tutto il suo fervore patriottico, pronto a difendere, e a cadere se necessario, per la sua Patria. E quando, nel 1923, entrò nell’Arma Azzurra, appena due anni dopo riuscì a conseguire il brevetto di Pilota, venendo assegnato al 1° Stormo Caccia Terrestre: congedatosi al termine della ferma, e dopo una breve esperienza presso l’Ala Littoria, compagnia civile adibita al trasporto aereo di passeggeri e posta, fu nuovamente richiamato in servizio all’inizio degli Anni Trenta, con il grado di Tenente. Capitano nel 1935, Fortunato Federigi partì volontario per il conflitto in Spagna, nell’Aviazione Legionaria. Inquadrato nel 21° Stormo, partecipò attivamente a tutti i combattimenti sui fronti di Malaga, del Mare Cantabrico e di Madrid: i velivoli italiani, decollavano dal campo di Soria, spesso reso un pantano melmoso. Venne promosso Maggiore per merito di guerra, e decorato con la prima Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Volontario in missione di guerra per l’affermazione degli ideali fascisti, già distintosi per valore in precedenti combattimenti, comandante di squadriglia da bombardamento, partecipava a numerose azioni di guerra dimostrando in ogni difficile circostanza sprezzo del pericolo e valore. Cielo di Spagna, marzo 1937-luglio 1937“.

Durante una delle numerose missioni di guerra a cui prese parte, il velivolo da lui pilotato rischiò seriamente di essere abbattuto: volando a volo radente, sganciò il proprio carico bellico presso Briuega, località in cui si trovava un forte concentramento di forze repubblicane. Una trentina di bombe da cinquanta chili ciascuna sconquassaro le linee avversarie, mentre da terra si riversava sui velivoli italiani una grandine di fuoco: con grande maestria riuscì a disimpegnare il proprio velivolo, portando in salvo tutti gli occupanti. Terminata l’esperienza spagnola, prese successivamente parte alle operazioni per l’occupazione dell’Albania, partecipando attivamente anche alle operazioni terrestri, mettendosi alla testa di alcuni reparti di fanteria appena sbarcati, cosa che gli varrà una Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Volontario nella esecuzione di difficili imprese in territorio Albanese sbarcato a Durazzo sotto il fuoco di fucileria, guidava alcuni reparti a catturava nuclei avversari. A Tirana compiva valida opera per assicurare il primo servizio di vigilanza. Durazzo, Tirana, 7-8 aprile 1939“. Nuovamente promosso, con il grado di Tenente Colonnello, Federigi verrà assegnato alla 205^ Squadriglia del 41° Gruppo da Bombardamento: e fu in questa veste che, ai comando dei velivoli Savoia Marchetti SM83 prese parte alla Seconda Guerra Mondiale: durante i combattimenti nel Mediterraneo, dalla base di Rodi, dove era stato dislocato, compì numerose missioni contro i convogli alleati diretti in Africa Settentrionale e verso Malta, nonché lungo le coste e nell’entroterra africano. Assieme ad Ettore Muti, poi, il 19 ottobre 1940, prese parte all’ardita azione contro le postazioni petrolifere di Manama, in Barhein: per l’occasione, i quattro velivoli SM82 prescelti per il raid furono dotati di serbatoi di carburante supplementari, per coprire gli oltre 4100 chilometri le quindici ore mezzo di volo.

Continuò a combattere nei cieli del Mediterraneo fino alla tragica giornata del 4 luglio 1941, quando il velivolo da lui pilotato venne intercettato e abbatuto durante un trasferimento. Verrà decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Volatore e navigatore incomparabile per perizia ed audacia, patriota fervente, legionario fiumano, squadrista, volontario di Spagna, sempre e dovunque presente là dove la Patria chiamava nelle ore luminose e decisive della sua storia, dava costante fulgida prova del suo alto valore e della sua fede purissima. Volando per oltre un milione e mezzo di chilometri su immense distese di mare, su terre deserte e lontane, congiungendo continenti e metropoli, contribuiva in modo decisivo alla vasta organizzazione della nostra aviazione civile. In guerra, sui vari fronti e in più cicli di intense operazioni, confermava le sue superbe doti di combattente invitto partecipando, sempre volontario ed instancabile, alle imprese più irte di ostacoli, di rischi, di pericoli, e portandole tutte brillantemente a termine. Durante un audace volo sul Mediterraneo, in aspro impari combattimento, precipitando con il velivolo in fiamme, immolava la sua ardente vita in olocausto alla Patria, già da lui tanto superbamente servita in devota umiltà. Dal rogo del suo velivolo si irradiava sul mare un alone di gloria che, in un’atmosfera di leggenda, coronando l’eroe, ne faceva rifulgere le gesta mirabili nella luce dell’epopea. Cielo del Mediterraneo, 11 giugno 1940-4 luglio 1941“.

Giuseppe Di Rorai, Eroe di Marsa Brega

Personificazione vera delle più elette virtù militari, eroica figura di Ufficiale seppe anche combattendo contro i ribelli della Cirenaica far rifulgere il suo indomito valore e mostrarsi degno delle ambite ricompense di cui era già insignito. In testa alla sua Compagnia a Uadi Mftam seppe con somma perizia, con slancio ammirevole, con prontezza ed energia, condurre vittoriosamente il primo attacco delle nostre truppe contro un forte campo ribelle, che sconfisse mettendolo in precipitosa fuga. A Marsa Brega il suo contegno calmo e sereno di fronte al soverchiante nemico suscitò l’ammirazione dei suoi Ascari. Colpito a morte mentre col grido fatidico di Savoia! trascinava i suoi all’assalto rivolse il suo ultimo pensiero alla Patria lontana, inneggiando alla vittoria delle nostre armi. Uadi Mftam, 29 marzo 1923; Marsa Brega, 11 giugno 1923“. Con questa motivazione venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria al pluridecorato combattente della Prima Guerra Mondiale, Capitano Giuseppe Di Rorai, caduto in battaglia in Cirenaica durante le fasi culminanti della riconquista dello “scatolone di sabbia” libico, mentre si trovava al comando della 1^ Compagnia del VII Battaglione Eritreo. Originario di Loreo, in provincia di Rovigo (vi era nato nel 1895), fu chiamato a prestare il servizio di leva nell’81° Reggimento Fanteria nel dicembre 1914, mentre frequentava gli studi di ragioneria. Presto, però, l’entrata in guerra dell’Italia lo portò a frequentare un corso per Allievi Ufficiali di Complemento: con il grado di Sottotenente, Giuseppe Di Rorai venne infine destinato al 2° Reggimento, Brigata Granatieri di Sardegna.

Destinato con il reparto nelle vallate attorno Monfalcone, condusse i suoi in battaglia con estremo coraggio, meritandosi la sua prima Medaglia d’Argento al Valor Militare durante le fasi più concitate dell’offensiva austriaca nell’Altipiano di Asiago, nota come Strafexpedition: più volte gli verrà affidato il comando di piccole pattuglie con il compito di portarsi a ridosso delle linee avversarie per saggiarne la consistenza e la dislocazione. Recita la motivazione dell’onorificenza: “Guidava con intelligente e valoroso ardire una ricognizione nelle linee avversarie, riportandone utili informazioni e catturando prigionieri. In un violento e breve combattimento di sorpresa, con lotta corpo a corpo, caduto in mano del nemico e disarmato, riusciva con gran coraggio e destrezza a liberarsi; bell’esempio di coraggio ai compagni e ai gregari. Altopiano di Asiago, 24-30 maggio 1916“. Arginata l’offensiva austriaca, e promosso al grado di Tenente, Giuseppe Di Rorai fu nuovamente destinato al Carso, dove i Granatieri diedero ottime prove di valore e di coraggio sulle alture del Cengio, della Val Magnanoboschi e del Monte San Michele. Assieme alle Brigate di Fanteria Ferrara, Catanzaro e Brescia, a costo di gravi perdite, avranno la meglio in numerosi combattimenti, spesso affrontati all’arma bianca. Una nuova prova venne offerta nell’agosto 1917, quando fu ordinato al 2° Reggimento di procedere alla conquista di Stari Lovka, una delle principali cime di Sella delle Trincee: la mattina del 19 agosto, i Granatieri balzarono all’assalto, conquistando di slancio le prime linee avversario. Costretti a trincerarsi per il costante fuoco delle mitragliatrici, l’offensiva riprese il giorno seguente con maggior vigore, cosa che portò gli Italiani fino all’abitato di Selo. Fu qui che il Tenente Di Rorai si meritò la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Incaricato di provvedere al collegamento con reparto di altro corpo, guidando con abilità la propria compagnia, assolse lodevolmente il suo compito. Mantenne poi la posizione occupata per il collegamento, respingendo contrattacchi nemici in forze superiori e dando bello esempio di virtù militari. Selo, 18-23 agosto 1917“.

Promosso Capitano e ritiratosi sul Piave dopo le giornate di Caporetto, durante le quali ai Granatieri venne ordinato di proteggere le retrovie delle lunghe colonne di soldati italiani, già il 14 gennaio 1918 il 2° Reggimento contrastò il nemico nei pressi di Capo Sile, durante i tentativi di ampliamento della testa di ponte. Al comando di una Compagnia, Di Rorai fu incaricato di neutralizzare alcune postazioni di mitragliatrice, meritandosi una nuova Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Conduceva compatta e ordinata la propria Compagnia all’assalto e alla conquista di una posizione sotto il violento fuoco nemico di mitragliatrici. Sosteneva poi e respingeva con fermezza, tenacia e coraggio mirabili ripetuti contrattacchi avversari, infondendo con il suo esempio la calma ed il vigore nei propri dipendenti. Capo Sile, 14-16 gennaio 1918“. Replicò magnificamente il successivo 2 luglio, quando una nuova offensiva portò i fanti italiani, dalla testa di ponte di Intestadura-Capo Sile, ad avanzare fino alla Piave Nuova: a costo di gravi perdite, le operazioni ebbero successo e al mattino del 6 luglio l’obiettivo fu raggiunto, attestando la nuova linea italiana tra La Trezza e Passo del Palazzetto. Intanto, giunse per il Capitano Di Rorai la terza onorificenza al Valor Militare, una nuova Medaglia d’Argento: “Alla testa della sua compagnia al grido di “Savoia” si lanciò all’attacco di una trincea nemica con tale impeto da indurre il nemico alla resa. Attaccato di fianco da forze nemiche, calmo ma risoluto, contrattaccò con largo getto di bombe a mano, uccidendo parte degli attaccanti e facendo prigionieri. Durante il resto della giornata fu sempre esempio magnifico di slancio, coraggio ed ardire. Casoni-Colle dell’Orso, Carso, 2 luglio 1918“. Transitato alla fine del conflitto in servizio permanente effettivo, gli venne affidato il comando della 1^ Compagnia del VII Battaglione Eritreo: giunto a Massaua nel 1919, il Capitano Di Rorai fu mobilitato con il suo Reparto per la Cirenaica. Nuove prove di coraggio lo attesero, fino alla tragica giornata dell’11 giugno 1923 quando, caduto in un’imboscata di ribelli arabi nei pressi di Marsa Brega, cadde alla testa dei suoi Ascari, mentre li trascinava con l’esempio all’assalto.

Nicola Romeo e il sogno dell’Alfa

Enzo Ferrari, Gianni Agnelli, ma anche Henry Ford, Ferdinand Porsche, Karl Benz. Nomi che hanno segnato i secoli passati, legando indissolubilmente la loro storia a quella dei motori e delle quattro ruote. Storie di uomini e di ingegno, capaci di guardare al presente con lo sguardo proiettato al futuro, immaginando veicoli sempre più potenti e veloci, in grado di battere e infrangere un record dopo l’altro. Accanto a questi nomi, un altro, spesso dimenticato o sottovalutato, riuscì a imporsi nell’immaginario collettivo italiano all’inizio del Novecento, rilevando, per lui che veniva dal Sud, un’azienda lombarda, l’ALFA (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), fondata il 24 giugno 1910 a Milano e che per i motivi più vari non navigava in perfette acque. Si trattava di Nicola Romeo, che fu in grado di imprimere al marchio del Biscione quella svolta industriale e, diremmo oggi, manageriale, che la porterà ad essere una delle principali industrie italiane, ancora oggi, dopo oltre un secolo di vita. E la storia di questo ingegnere, romantico e sognatore, ma al tempo stesso deciso e determinato, viene raccontata da Ivan Scelsa, Girornalista, nel libro Nicola Romeo. L’uomo dietro la mitica Alfa. E noi, per raccontare questa storia rimasta ingiustamente segreta troppo a lungo, abbiamo rivolto qualche domanda all’autore.

Di Enzo Ferrari e del mito del Cavallino Rampante è stato scritto praticamente tutto e di tutto. Come mai, invece, di Nicola Romeo si è sempre saputo poco?
Duole dirlo, ma anche tra gli storici ed appassionati del Marchio, quella di Nicola Romeo è sempre stata erroneamente ritenuta una figura secondaria. A differenza di Enzo Ferrari (che ricordiamolo, all’Alfa Romeo deve molto…) la storia personale dell’ingegnere campano dai natali lucani è solo in parte legata al settore automobilistico. Questo, per la letteratura di settore, ha sempre rappresentato un limite. Quello di Romeo nell’Alfa è un viaggio che dura meno di poco più di nove anni e che ripercorre una storia nella storia, fatta di uomini, politica, azioni svalutate ed interessi bancari e forse da quell’idea un po’ romantica di chi, nel potenziale di quell’azienda, ha creduto sin dal primo momento.

Una storia poco nota di questo ingegnere della provincia di Napoli trapiantato al nord, in Lombardia, fu il contributo dato alla Grande Guerra. Soprattutto per le operazioni sul Col di Lana, non è così?
Nel 1915, Nicola Romeo riconverte gli stabilimenti dell’Alfa del Portello alla produzione bellica tanto che, con l’aiuto dei suoi potenti impianti di aria compressa, l’anno seguente appronta la famosa esplosione del Col di Lana che si rivela un’ottima scelta per la crescita economica dell’azienda proprio in virtù dell’ingresso del nostro Paese nel primo conflitto mondiale. E’ uno spirito inquieto quello di Nicola Romeo; è un uomo dotato di fortissime qualità pratiche e persuasive, capace di creare una rete di potenti officine per l’approntamento di proiettili di artiglieria di cui tiene le redini e a cui fanno capo diversi migliaia di operai, centinaia di impiegati ed ingegneri divisi in vari stabilimenti. In solo un decennio, dal 1905 al 1915, è in grado di fondare e presiedere diverse attività, tra cui la Ing. Nicola Romeo & C., la Società Liguria, le Officine Ferroviarie Meridionali, la Società Cementazioni per opere pubbliche, solo per citarne alcune, a conferma di interessi poliedrici che danno importanti utili proprio in tempo di guerra.

Nicola Romeo fu senza dubbio un uomo di grandi vedute e grandi capacità. A cosa si deve questa sua “fortuna” nel rilevare l’ALFA nel 1915?
E’ il 1909 quando Romeo giunge nel vivace capoluogo lombardo per aprire un’officina di appena cinquanta dipendenti in via Ruggero di Lauria (poco lontano dal Portello) dove assembla le perforatrici ed i compressori pneumatici per una ditta statunitense. Riesce ad aggiudicarsi alcuni lavori per la realizzazione di grandi progetti idroelettrici e quindi l’applicazione dell’aria compressa nelle gallerie Roma-Napoli e Bologna-Firenze. Nel contempo, gli stabilimenti del Portello della Società Italiana di Automobili Darracq vengono rilevati da un gruppo di imprenditori che fonda l’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili. E’ la mancanza di capitali ed una situazione societaria precaria che gli consentono di acquistare senza particolari difficoltà la piccola azienda. Con questa acquisizione, di fatto, Romeo controlla un vero impero che, seppur non detenendo la maggioranza delle azioni, riesce a gestire agevolmente. Ed è proprio durante la Prima Guerra Mondiale che la espande, convertendo la produzione di vetture in materiale bellico: una scelta quasi vincolata per la sopravvivenza.

I tempi d’oro dell’automobilismo videro l’Alfa Romeo primeggiare in Formula 1 tra il 1950 e il 1951, con piloti del calibro di Nino Farina e Juan Manuel Fangio. Oggi ritorna come team sponsor della Scuderia Sauber. Quanto c’è, ancora oggi, di quel sogno immaginato da Nicola Romeo?
Il sogno di Nicola Romeo dura poco più d’un battito d’ali, giusto il tempo di riconvertire l’Alfa alla produzione bellica dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale e vederla rilanciata nei primi successi commerciali e sportivi. Un secolo dopo, sulla eco di gloriose vittorie, pagine leggendarie di motorismo e di quell’indiscutibile fascino che le vetture del Biscione tutt’ora conservano nell’immaginario collettivo, la speranza che le Alfa di Formula Uno possano diventare qualcosa di più che un crogiuolo di sperimentazione e vivaio di giovani talenti è quanto ogni Alfista custodisce dentro di sé. Quel sogno, oggi, è parte di ognuno di noi.

Viareggini decorati al Valore

Era nato a Viareggio, nel 1914, Mario Martignoli, di professione ragioniere. Ma avrebbe ben presto dovuto lasciare, e mettere per un momento da parte, la contabilità e le partite doppie, partendo per l’Africa Orientale: arruolatosi nella Regia Aeronautica, con i gradi di Sergente Maggiore fu inviato nei territori appena conquistati dell’Etiopia, in quel nuovo Impero proclamato dal Regime di Mussolini. Ai comandi di velivoli da ricognizione e bombardamento, Mario Martignoli prese parte a diverse missioni per contrastare le ultime sacche di resistenza, fino a quando, l’11 maggio 1938, durante un’azione a bassa quota, il proprio velivolo venne colpito e si schiantò al suolo. Fu decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria: “Valoroso e ardito pilota, in numerosissime missioni belliche compiute nei cieli dell’Impero, faceva rifulgere le proprie qualità di combattente audace, sereno, sprezzante del pericolo. Partecipava a rischiose azioni di ricognizione, bombardamento e mitragliamento a volo rasente, dimostrando sempre calmo coraggio e ragionato ardimento. Durante lo svolgimento di una missione bellica, incontrava morte gloriosa. Cielo dell’Impero, gennaio 1937-11 maggio 1938”. Oggi, il Sergente Maggiore Martignoli riposa, assieme ad altri 234 Caduti dei due conflitti mondiali nel piccolo, ma composto, Sacrario Militare ricavato all’interno del cimitero di Viareggio.

Fa sempre un certo effetto ricercare notizie su quanti caddero in battaglia, magari durante un assalto della fanteria, o affondati con la propria nave in alto mare, oppure abbattuti mentre si trovavano ai comandi dei propri velivoli. Certe volte si scoprono storie di vero coraggio, di uno spirito di servizio e del dovere che supera ogni previsione, anche di fronte ad una morte certa. Come Ranieri Gori, Soldato del 182° Reggimento Fanteria Costiera, dislocato in Corsica e travolto dai fatti dell’8 settembre 1943, da quell’armistizio che colse di sorpresa interi comandi. Era il 17 settembre, quando, nonostante una grave amputazione di un arto causata da una scheggia, continuò a combattere contro un reparto tedesco, fino a quando una raffica ne stroncò la vita. Si meritò una Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria: “Portaordini di un comando di reggimento rimasto accerchiato durante un attacco tedesco, assieme al reparto al quale aveva recapitato un ordine, si lanciava arditamente al contrassalto. Ferito gravemente da scheggia di mortaio che gli asportava il braccio sinistro, benché esausto per il sangue perduto, lanciava sull’avversario le sue ultime bombe a mano, incitando i compagni a persistere nella lotta. Colpito una seconda volta da piombo avversario, cadeva da Eroe al suo posto di combattimento. Picalcroce, Croce, 17 settembre 1943”. E due anni prima, durante la campagna di Grecia, Pietro, fratello di Ranieri, Sottotenente del 225° Reggimento Fanteria Arezzo, guidando e spronando i suoi Fanti all’assalto di Quota 1876, cadeva colpito a morte da una scarica di fucileria, dopo aver lanciato le sue ultime bombe a mano. Alla sua memoria, la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Aiutante Maggiore di un Battaglione impegnato in aspro combattimento, attraversava terreno battuto per partecipare all’azione. Visto che presso una quota il nemico stava per sopraffare i difensori, si poneva alla testa di pochi uomini e si lanciava all’assalto con violenta azione di bombe a mano. Nel corso di tale ardita azione, colpito da proiettile, cadeva da valoroso. Quota 1876 di Uj i Fofte, Fronte Greco, 4 aprile 1941”. Oggi, i fratelli Ranieri e Pietro riposano uno accanto all’altro, finalmente riuniti.

E poi i tanti caduti della Grande Guerra, come il Soldato Ovidio Canova, del 141° Reggimento Fanteria, Brigata Catanzaro che, sopravvissuto a numerosi assalti sul Carso, il 18 gennaio 1917 perdeva la vita a seguito di una grave malattia, dovuta ai patimenti sofferti durante la logorante guerra di trincea. Apparteneva, invece, al 263° Reggimento della Brigata Gaeta il Sottotenente Agide Caprili, deceduto nell’Ospedale da Campo n. 55 l’8 dicembre 1918 a causa della pandemia di Spagnola che imperversò gli ultimi anni del conflitto e che contribuì in maniera drammatica a seminare nuovi lutti in milioni di famiglie europee e non solo. In un assalto, il Caporalmaggiore Romeo Lombardi, del 23° Reggimento Fanteria, Brigata Como, veniva ferito gravemente: a niente valsero le cure dei sanitari e dei medici: spirava il 7 agosto 1918 a bordo dell’Ambulanza Chirurgica d’Armata n. 1. Infine, durante la Battaglia del Solstizio, inquadrato nel 3 Reggimento Artiglieria Da Montagna, cadeva l’Artigliere Gino Tofanelli, mentre dalle sue posizioni lungo il corso del Fiume Piave contrastava l’assalto nemico. Nuovamente sul fronte greco-albanese, un altro viareggino venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria, il Sottotenente Tommaso Paglione, del 19 Reggimento Artiglieria Venezia: “Capo Pattuglia presso un Reggimento di Fanteria, si portava di iniziativa dove più aspra era la lotta per consentire una maggiore efficacia al tiro del suo gruppo. Accortosi che una sezione di accompagnamento era rimasta priva di Ufficiali e di Capi Pezzo, spontaneamente e incurante del tiro nemico, si portava ad un’arma e personalmente la manovrava aprendo il fuoco a breve distanza contro incalzanti forze avversarie, che riusciva contemporaneamente a contenere. Obbligato a ripiegare, caduti i pezzi in mano all’avversario, nell’intento di riprendere i propri cannoni, riuniva i conducenti e con trascinante esempio li guidava al contrassalto, dal quale non tornava. Kokoglavo, Quota 1907, Albania, 4 novembre 1940”. Tanti altri sono qui ricordati. Sia nei loculi individuali, sia nelle bianche lapidi marmoree, il cui corpo non è stato più possibile identificare e localizzare, scomparso per sempre tra i vortici della guerra.

Giuseppe Colombi, volontario in tre guerre

Così scriveva il Corriere della Sera nella sua edizione del 25 maggio 1941 : “Aveva seguito, a diciotto anni, Filippo Corridoni nelle battaglie per l’intervento e si era arruolato volontario in un eroico reggimento, passando poi negli Arditi. Ferito, s’era guadagnato una Medaglia al Valor Militare. Finita la guerra, aveva preso parte, a fianco di Mussolini, alle lotte del Fascismo, intervenendo anche nella storica adunata del 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro. Aveva meritato una seconda Medaglia di Bronzo al Valore nella campagna etiopica, in cui pure era partito volontario. E volontario, per la terza volta, era partito appena dichiarata la guerra all’Inghilterra”. Si trattava di Giuseppe Colombi, originario di Rivolta d’Adda, piccolo centro abitato in provincia di Cremona, dove vi era nato il 2 aprile 1897. Lui, che appena diciottenne, seguì la chiamata alle armi da volontario e partì, con il grado di Caporale, alla volta del fronte italiano, combattendo nelle fila del Regio Esercito, guadagnandosi una Medaglia di Bronzo al Valor Militare nei combattimenti presso Dosso Faiti: “Quale Capo Squadra di Arditi, si slanciava coraggiosamente per primo contro la trincea nemica, mostrandosi calmo, sereno e fiducioso, sotto un violento tiro di fucileria e trascinando con l’esempio del suo entusiasmo i dipendenti. Dosso Faiti, 18 maggio 1917”. Ma per il giovane Colombi, la guerra non era solamente la lotta contro un nemico forte e agguerrito: era anche la dimostrazione, soprattutto a sé stesso, di osare l’inosabile, di slanciarsi pugnale tra i denti e bombe a mano contro i reticolati avversari. Vennero le giornate di Caporetto e la ritirata sul Piave, estrema linea di difesa italiana, a protezione delle vallate e della Pianura Padana: qualcuno lo scrisse anche su di una casa, O il Piave, o tutti accoppati. E Colombi, nel frattempo promosso Sergente, si fece trasferire volontario nel 25° Battaglione d’Assalto, con cui terminerà il conflitto, non prima di essersi guadagnato una Croce di Guerra al Valor Militare poco prima che, anche sul fronte italiano, tacessero le armi: “Comandante di una pattuglia fiancheggiante, assolveva il suo compito lodevolmente, catturando materiale e facendo prigionieri. Durante tutto il combattimento dava esempio di ardimento e valore. Longarone, Castellavazzo Olantreghe, Ospitale, 3 novembre 1918”.

La Grande Guerra, quella Grande Guerra che aveva portato morte e distruzione in tutta Europa, era finita. Adesso, le Nazioni superstiti dovevano seguire la strada della ricostruzione, non senza problemi: il vento della Rivoluzione Russa del 1917 iniziò a spirare anche nell’Europa Occidentale, acuendo lo scontro sociale, aggiungendo nuove incertezze e dubbi sul futuro. Molti i reduci che si riunirono attorno a formazioni nazionaliste e reducistiche, pronte a prendere le armi, se necessario, per ristabilire l’ordine sociale. Anche Giuseppe Colombi aderì alle prime formazioni dei Fasci Italiani di Combattimento, fin dal marzo 1919, che porteranno poi alla costituzione del Partito Nazionale Fascista, appena tre anni dopo. Nella nuova formazione politica, Colombi si fece ben presto conoscere, divenendo Fiduciario del Gruppo Tonoli di Milano, intitolato alla memoria di Emilio Tonoli, giovane squadrista ventiduenne ucciso nel capoluogo lombardo il 4 agosto 1922 durante un assalto alla sede del quotidiano socialista L’Avanti!, giornata nella quale, in tutta Italia, la popolazione assistette a rivolte e tumulti in numerose città. Quando, il Governo di Benito Mussolini decise di conquistare l’Etiopia, Giuseppe Colombi fu volontario per la seconda volta. Al seguito della 220^ Legione Camicie Nere, partì alla volta dell’Africa Orientale, dove in successivi e furiosi combattimenti si aprì la strada lungo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti. Nelle successive operazioni di polizia coloniale, si meritò una nuova Medaglia di Bronzo al Valor Militare per aver respinto, assieme alla sua banda di indigeni, un assalto di irregolari intenzionati ad interrompere i collegamenti ferrovieri nelle colonie italiane: “Combattente della Grande Guerra e già decorato al Valor Militare, Comandante di reparto irregolari indigeni, conteneva a lungo la pressione di numerose forze ribelli che miravano ad interrompere la ferrovia, finché, sopraggiunti i rinforzi, il nemico veniva posto in fuga. Sempre di esempio ai propri dipendenti per sprezzo del pericolo e doti di valore. Monte Jerer, 12 ottobre 1936”.

Quando fece ritorno in Italia al termine dell’esperienza coloniale in Etiopia, Giuseppe Colombi poteva dirsi soddisfatto della sua esperienza militare. Due volte volontario, ben tre volte decorato al Valore. E, presto, una nuova prova si stava profilando all’orizzonte per questo combattente ormai non più giovanissimo: non era più il giovane diciottenne affascinato dai discorsi e dai proclami interventisti di Filippo Corridoni, ma un uomo che aveva superato i quarant’anni d’età, sul cui fisico gravavano diverse ferite di guerra. Eppure, volle essere nuovamente in prima linea quando, il 28 ottobre 1940, iniziarono le operazioni contro la Grecia. Con il grado di Caposquadra (equivalente, nella Milizia Volontaria, a quello di Sergente nel Regio Esercito) salpò alla volta del Porto di Valona, in Albania, con la 26^ Legione d’Assalto Camicie Nere: ma questa volta, la campagna militare, preparata con troppa superficialità e sottostimando le forze greche e la loro combattività, si arenò ben presto in una logorante guerra di posizione sui monti dell’Epiro. Anzi, in più di un’occasione le forze italiane furono sul punto di cedere e fu solo il coraggio dei reparti e soldati, piuttosto che la capacità dei generali, che il fronte, sebbene dopo alcuni ripiegamenti, poté essere mantenuto. Quando, nell’aprile 1941, la controffensiva italiana, concomitante alla travolgente avanzata tedesca, scompaginò le ultime difese elleniche, la 26^ Legione attaccò lungo l’intera vallata del Drino. La squadra guidata da Giuseppe Colombi balzò all’attacco e lui stesso fu tra i primi a lanciarsi contro le posizioni nemiche, fino a quando, colpito ripetutamente da colpi di fucile, immolò la sua vita. Quest’ultima battaglia lo vide fregiarsi della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria: “Nonostante alcune imperfezioni fisiche dovute a ferite di guerra, si arruolava volontario per l’Albania. In una riuscita azione di sorpresa, giungeva primo su importante posizione; in piedi, a pochi metri dal nemico, incitava i suoi Arditi all’attacco lanciando bombe a mano sull’avversario. Colpito una prima volta, rifiutava ogni aiuto continuando ad incitare i compagni alla lotta. Animato da superba volontà, lanciava la sua ultima bomba a mano gridando Viva il Duce. Nuovamente colpito, chiudeva la vita tutta dedicata all’amore di Patria e al Fascismo. Valle del Drino, Quota 840, 16 aprile 1941”.

Alfredo Longo, con l’84° Fanteria in Grecia

La campagna di Grecia era appena iniziata da poco più di una settimana e già l’avanzata italiana subiva i primi rallentamenti, prima di arrestarsi del tutto, di fronte ad un terreno impervio e alla capacità dei Greci di resistere: quella che doveva essere una rapida avanzata verso l’Epiro, si trasformò in una umiliante e logorante guerra di posizione, che mostrerà tutta l’impreparazione italiana ad affrontare il nuovo conflitto. E i morti, iniziarono inesorabilmente ad aumentare. Poca consolazione, per le famiglie, furono le Medaglie d’Oro al Valor Militare, spesso alla Memoria, che si vedranno conferite dalle autorità italiane. Come quella ad Alfredo Longo, Capitano dell’84° Reggimento Fanteria, caduto il 5 novembre 1940 sulle Alture di Bilishti, lungo il confine albanese. Originario di San Lorenzo del Vallo, oggi in provincia di Cosenza, il giovane Alfredo Longo sarà uno dei tanti Ragazzi del ’99, arruolandosi volontario ad appena diciotto anni nel 9° Reggimento Artiglieria da Fortezza: orfano di entrambi i genitori, deciderà, a conflitto ormai terminato, di rimanere nel Regio Esercito, frequentando un corso per Allievi Ufficiali e venendo destinato al settore libico, negli anni in cui era in corso la riconquista della colonia, dove vi rimase per quasi cinque anni.

Giunto al seguito del 17° Battaglione Misto del Regio Corpo Truppe Coloniali, l’allora Tenente Alfredo Longo, nell’ottobre 1923 si guadagnò una Croce di Guerra al Valor Militare: “All’assalto di posizione strenuamente difesa dal nemico, con slancio ammirevole piombava sul fianco sinistro della posizione stessa, rimanendo ferito. Bir Carrarim, 13 ottobre 1923”. Ripresosi dalle ferite, continuò la sua permanenza in terra libica, proprio nel momento in cui erano più impegnative le operazioni di polizia coloniale. Nel febbraio 1928, durante una serie di accesi scontri, tra cui quello di Tagrift, dove le forze italiane e ascare guidate dal Generale Rodolfo Graziani si scontrarono contro le bande indigene guidate da Sef En Nasser, Alfredo Longo venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Già distintosi in precedenti combattimenti, per ardimento e sprezzo del pericolo, conduceva con successo un brillante attacco contro un nemico di forze superiori. Nel più aspro e sanguinoso combattimento del ciclo, trascinava col suo esempio il proprio plotone all’attacco dei pozzi difesi ad oltranza dall’avversario e riusciva a sorpassarli per primo. Zella, 22 febbraio; Bir Tagrift, 25 febbraio 1928”.

Dopo un breve trascorso in Africa Orientale durante la campagna per la conquista dell’Etiopia, trasferito all’84° Reggimento Fanteria, promosso al grado di Capitano, Alfredo Longo verrà inviato in Albania, alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Mobilitato al momento della dichiarazione di guerra alla Francia, nel giugno 1940, sarà tra i primi a varcare la frontiera greca il 28 ottobre successivo. Durante un furioso assalto ad alcune posizioni greche, guidò personalmente numerosi contrattacchi, esponendosi sempre dove maggiore era il rischio. Nelle fasi più concitate, il Capitano Alfredo Longo veniva colpito in pieno petto da una raffica di mitragliatrice, che ne spezzava la vita. Venne insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Durante un cruento combattimento, percorreva più volte la linea battuta da intenso fuoco nemico per animare i combattenti e dirigere personalmente l’azione delle proprie armi d’accompagnamento decentrate alle compagnie fucilieri. Volontariamente assumeva poi il comando di un reparto rimasto privo di ufficiale, lo riordinava rapidamente e lo guidava impetuosamente più volte al contrassalto, riuscendo ad arrestare il nemico e ad infliggergli gravi perdite. Nell’irruenza dell’ultimo attacco, mentre si affermava solidamente sulla difficile posizione nemica, colpito in pieno da una raffica di mitragliatrice nemica, trovava gloriosa morte. Alture di Bilishti, Albania, 5 novembre 1940“.