Da un nichelino cavo la più grande storia di spie

Tutto ebbe inizio da un banale acquisto di una copia di un quotidiano locale nei sobborghi di Brooklyn: Jimmy Bozart, strillone di strada appena quattordicenne che si guadagnava da vivere vendendo il Brooklyn Eagle, ricevette da un ignoto acquirente come forma di pagamento alcune monete, tra cui un nichelino (nomignolo utilizzato per indicare i cinque centesimi) stranamente leggero. Fu da un’azione tanto banale che iniziò uno dei casi di spionaggio più celebri di tutta la Guerra Fredda, durato quasi dieci anni, che attraversò i territori degli Stati Uniti d’America, delle due Repubbliche Tedesche e dell’Unione Sovietica. Era il 22 giugno 1953 quando il giovane Bozart fece una scoperta che, forse, era meglio non facesse: gettandolo a terra, il nichelino si aprì, lasciando cadere dal suo interno un piccolo spezzone di microfilm, con lunghe sequenze di numeri. Per quasi quattro anni, il Federal Bureau of Investigation tentò, invano, di decifrare quel codice, ma senza la matrice originale per la decodifica l’impresa risultò del tutto impossibile. Così, quel piccolo microfilm cadde quasi nel dimenticatoio, nonostante il controspionaggio, da dietro le quinte, cercasse in ogni modo di venirne a capo, soprattutto a capirne la provenienza. Intanto gli anni passavano, la Guerra Fredda si acuiva sempre più, arrivando fino al maggio 1957: i funzionari dell’Ambasciata Americana di Parigi non credettero ai loro occhi e alle loro orecchio, quando un agente del KGB, il servizio segreto russo, decise di disertare, consegnandosi spontaneamente, dopo aver oltrepassato il portone d’ingresso dell’edificio diplomatico.

Fu così che ben quattro anni dopo la scoperta fatta quasi per caso dal quattordicenne Jimmy Bozart, quell’indecifrabile codice poté essere messo finalmente “in chiaro”: la ormai ex spia sovietica, Reino Hayhanen, Tenente Colonnello dell’intelligence di Mosca di origine finlandese, fornì alle autorità americane il tanto agognato cifrario. Il codice impiegato, tra l’altro, era tra i più sofisticati in circolazione, sfruttando come base per a codifica la sequenza di Fibonacci e varie altre cifrature per garantirne ancora di più la segretezza. L’Agente Victor, come era chiamato in codice, inoltre, fornì anche diversi nomi: ossia quelli di alcuni suoi superiori e colleghi, agenti segreti anch’essi, tra cui Michail Nikolaevic Svirin, funzionario sovietico accreditato presso la legazione delle Nazioni Unite, Vitaly Pavlov, agente sotto copertura presso l’Ambasciata di Ottawa, e un sottufficiale dello United States Army, il Sergente Roy Rhodes, passato al nemico dopo essere stato avvicinato con la prospettiva di facili guadagni mentre era in servizio presso l’Ambasciata di Washington a Mosca. I loro compiti, agendo nell’ombra, dietro le quinte di quella guerra mai dichiarata e combattuta dalle spie dell’Est e dell’Ovest, erano quelli di raccogliere quante più informazioni possibili sul sistema missilistico americano, sulla difesa aerea e sugli armamenti atomici. E tutte le informazioni raccolte giungevano a Mosca per il tramite di un altro agente, tale William Genrichovic Fischer: il suo vero nome era, però, Rudolf Abel, membro, fin dal 1927, della GPU, la polizia segreta sovietica antecedente al KGB. Considerato uno dei più importanti agenti sul suolo americano, il suo arresto fu condotto da uomini dell’FBI il 21 giugno 1957 e si trasformò subito in un caso mediatico senza precedenti, almeno da quando furono condannati alla sedia elettrica i due coniugi Julius e Ethel Rosenberg, giustiziati il 19 giugno 1953 nel Carcere di Sing Sing, in quanto accusati di cospirazione con l’Unione Sovietica, di essere spie assoldate da una Nazione straniera e di aver trafugato segreti nucleari.

Il processo a Rudolf Abel fu, in estrema sintesi, già deciso prima di venire imbastito. Sebbene rischiasse la pena di morte, la sentenza emessa lo condannò a trent’anni di carcere. E li avrebbe scontati tutti se, il 1° maggio 1960, un Aero Spia U2 non fosse stato abbattuto da un missile contraereo mentre sorvolava il territorio sovietico, nell’Oblast di Sverdlovsk, nei pressi di Ekaterinburg. Quella che poteva trasformarsi in una crisi internazionale senza precedenti, si risolse, invece, in una mediazione delle diplomazie dei due schieramenti: il Capitano Francis Gary Powers, lo sfortunato pilota dell’U2 abbattuto, dopo una prigionia durata quasi due anni nelle carceri della Lubjanka a Mosca, venne scambiato con Rudolf Abel presso il Ponte di Glienicke, a Potsdam. Contemporaneamente, al Check-Point Charlie, a Berlino, le autorità della Repubblica Democratica Tedesca rilasciarono uno studente americano, Frederic Pryor, arrestato dalla STASI durante un normale controllo dei passaporti. Con lo scambio dei prigionieri, avvenuto in una fredda e umida notte del 10 febbraio 1962, aveva ufficialmente fine l’affaire del nichelino cavo: la Guerra Fredda, però, si sarebbe inasprita ancora di più: pochi mesi dopo, infatti, un altro velivolo U2, questa volta sorvolando l’Isola di Cuba, fotografò alcune rampe missilistiche equipaggiate con missili balistici a medio raggio, in grado di colpire la quasi totalità del territorio americano.

Ad Angela Fresu, la vittima più piccola della Stazione di Bologna

La magia delle canzoni di Fabrizio De André era (ed è) racchiusa in una parola: allusione. Senza mai citare persone e fatti reali, concreti e tangibili, bastava una strofa affinché quell’allusione divenisse davvero reale. E questo accade soprattutto in Se ti tagliassero a pezzetti, tanto che, se ai meno attenti può ricordare solamente un inno all’amore e alla libertà, in una strofa quasi sussurrata nasconde, invece, una delle stragi più sanguinose che colpirono l’Italia e i suoi cittadini: “T’ho incrociata alla stazione, che inseguivi il tuo profumo, presa in trappola da un tailleur grigio fumo. I giornali in una mano e nell’altra il tuo destino, camminavi fianco a fianco al tuo assassino”. Perché quella stazione, in cui il cantautore incontra questa ragazza senza un nome, non è altro che quella di Bologna, in una estate già macchiata del sangue di innocenti, inabissatisi nel Mar Tirreno, tra le Isole di Ponza e di Ustica. Era il 2 agosto 1980 quando un’intera città addormentata dal caldo e dall’afa, dovette svegliarsi improvvisamente, macchiata del sangue di ottantacinque morti e di oltre duecento feriti, dilaniati da oltre venti chili di tritolo esplosi nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione. In carcere, è vero, sono finiti i colpevoli, o almeno quelli che la Magistratura ha ritenuto tali. Ma non mancano, dopo oltre quarant’anni, specie a ridosso dell’anniversario, nuovi scoop, nuove rivelazioni, nuovi testimoni che, improvvisamente, hanno qualcosa da dichiarare.

Tra quanti quel maledetto giorno furono investiti in pieno dall’esplosione, dall’onda d’urto e dalle macerie della stazione crollata, vi fu anche una bambina, di tre anni, Angela Fresu, che si trovava assieme alla sua mamma Maria, in attesa di salire sul treno: erano a Bologna perché stavano partendo per le vacanze, qualche giorno lontano dal caldo per raggiungere il Lago di Garda, su al nord. Ma qualcuno decise che quel viaggio non si doveva compiere, così come quello delle altre vittime. La storia della piccola Angela ricorda quella di un’altra giovane vita spezzata, quella di Giuliana Superchi che, contenta per l’inizio delle vacanze estive, era partita anche lei da Bologna per raggiungere suo papà giù in Sicilia. Ma non in treno, in aereo. Quel DC-9 della Compagnia Itavia che, ormai prossimo all’Aeroporto di Punta Raisi, scomparve improvvisamente dagli schermi radar dei controllori civili e dell’Aeronautica Militare, infilandosi (e qui il destino giocò il suo brutto scherzo), nella Fossa del Tirreno, a quasi 3800 metri sotto la superficie del mare. Perché come per Giuliana, anche di Angela non venne rinvenuto un corpo: si disse, allora, che madre e figlia si trovavano praticamente nel punto zero, a brevissima distanza, se non affianco, della borsa che conteneva l’esplosivo. Polverizzate, scomparse per sempre senza lasciare la benché minima traccia. Più tardi, un lembo di pelle rinvenuto tra le macerie verrà attribuito a Maria Fresu, unico frammento rimasto di una donna adulta.

E come ogni anno, a Gricciano di Montespertoli, sulle colline intorno a Firenze, una comunità intera ricorderà quella giovane madre e la sua bambina, che dalla Sardegna, assieme alla loro famiglia, si erano trasferite in Toscana. E come ogni anno, qualcuno deporrà un nuovo mazzo di fiori, davanti a quella grossa lapide pesante più di un macigno, che ricorda, una per una, le ottantacinque vittime: quando hanno ricostruito il padiglione crollato della stazione, volutamente l’enorme squarcio causato dall’esplosione è stato richiuso solo con un vetro, lasciando la parte aperta, come una ferita cicatrizzata, ma non rimarginata. Perché Bologna è questa: una città doppiamente ferita in quella calda e torrida estate del 1980, dapprima con il DC-9 decollato in ritardo dall’Aeroporto Guglielmo Marconi e poi con ventitré chili di tritolo nella sala d’aspetto di seconda classe della Stazione Centrale. Non rimase nulla di Maria e Angela: la bianca bara della bambina di Montespertoli era vuota, il giorno dei funerali. Nessun corpo su cui piangere, scomparsa per sempre tra la polvere e le macerie della stazione. E forse è stato meglio così, piuttosto che dover riconoscere un piccolo corpo dilaniato, mutilato, bruciato, fatto a pezzi. E allora ecco che torna alla mente quella canzone di Fabrizio De André, con la protagonista senza nome, e il destino scritto in note della piccola Angela: “Ma se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe. Il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna, la luna, tesserebbe i capelli e il viso e il polline di Dio, di Dio il sorriso”.

Uomini contro bombe

Una giornata come tante, quella del 28 luglio 2010 a Herat, in Afghanistan, per gli uomini e le donne del Contingente Italiano. Pattugliamenti, incontri con la popolazione locale, trasferimenti tra una base e un’altra. Fino a quel giorno, i soldati italiani avevano già pagato un altro tributo di sangue, in una delle missioni oltremare più impegnative che fino ad allora aveva visto coinvolto il personale delle Forze Armate Italiane. Ma quel 28 luglio 2010 fu diverso per un tragico motivo: durante una bonifica di una zona da alcuni ordigni improvvisati, i letali IEDD (Improvised Explosive Device Disposal), una violenta esplosione investiva in pieno il 1° Maresciallo Mauro Gigli, del 32° Reggimento Genio, e il Caporalmaggiore Capo Pierdavide De Cillis, in forza al 21° Reggimento Genio. A nulla valsero i soccorsi immediati: i nomi dei due militari italiani andarono ad allungare il già triste elenco di quanti sacrificarono la propria fino a quel momento in terra afgana. Erano uomini contro bombe, così come lo era Stefano Rugge, Maggiore del 10° Reggimento Genio Guastatori, che pagò con la propria vita, l’8 maggio 2002, il tentativo di mettere in sicurezza una strada minata, in un altro teatro operativo, quello balcanico, nei pressi di Popola Sapka, nella Repubblica di Macedonia. Uomini contro bombe, come quelli raccontati nel volume edito dallo Stato Maggiore della Difesa e che ripercorre l’addestramento e l’operatività di coloro che sono definiti, forse troppo sbrigativamente, sminatori, ma che in realtà combattono una guerra silenziosa, dietro le quinte, contro minacce invisibili: mine antiuomo e anticarro, ordigni improvvisati, vecchi residuati bellici, bombe inesplose.

Un lavoro a più mani, scritto da esperti del settore della Difesa, con lunghi trascorsi nelle operazioni fuori area condotte dalla Forze Armate Italiane. Uomini contro bombe illustra al lettore come, una volta vinta una guerra o pacificata un’area di crisi, la missione dei militari è tutt’altro che conclusa. Inizia la bonifica da tutto quel materiale inesploso abbandonato sul campo di battaglia, che può rivelarsi letale non solo per i soldati stessi ma anche per le popolazioni locali che vi abitano. Ma non solo. L’Iraq e l’Afghanistan, per la colazione occidentale, si sono dimostrati letali non tanto per le battaglie e i combattimenti, quanto per le trappole esplosive disseminate lungo strade, rotabili, piste nel deserto, attivate al passaggio dei convogli alleati durante i pattugliamenti o l’assistenza alle popolazione vittima del conflitto. Per questo arrivano loro, soldati rinchiusi dentro scafandri atti a contenere i danni delle esplosioni degli IED, abili a riconoscere quale filo tagliare e quale collegamento interdire. Un’opera che non viene svolta solamente all’estero. Anche in Italia, sul suolo nazionale, quegli stessi Genieri inviati nei teatri di crisi, vengono spesso chiamati a neutralizzare vecchie bombe d’aero, mine marine arrugginite, siluri affondati risalenti ai due conflitti mondiali, venuti alla luce durante opere di rifacimento di strade, ponti, viadotti. E l’essere ormai vecchi di quasi un secolo non li ha resi certo meno offensivi e pericolosi.

Come scritto nelle prime pagine del volume, uomini contro bombe sono “tre parole che racchiudono un vero e proprio mondo fatto di coraggio, passione, tecnologia e professionalità: quello degli specialisti delle Forze Armate impegnati quotidianamente nella lotta agli ordigni esplosivi, in Italia e all’estero. Un mondo dove il pericolo è sempre dietro l’angolo e nel quale, malgrado l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate, il fattore umano è centrale. Un mondo caratterizzato da minacce sempre nuove e diversificate alle quali si contrappongono militari altamente specializzati, che mettono a rischio la propria vita per salvare la vita degli altri”. E la vita degli altri la salvarono senza dubbio di smentita alcuna anche Stefano Rugge, Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis: in territori già martoriati da guerre civili e di religione, cercarono di rendere più vivibili quei luoghi alle generazioni future, pagando in prima persona l’insidia portata da mine e trappole esplosive.

Caron e Ray, portaferiti in Vietnam

Si chiamavano Wayne Maurice Caron e David Ray, Marines degli Stati Uniti d’America che si ritrovarono a combattere nella guerra più impopolare che fino a quel momento aveva visto impegnati i soldati di Washington: quella del Vietnam. Ma Caron e Ray non erano soltanto dei Marines: erano infermieri. Sapevano bene che in mezzo alla battaglia, mentre tutti avrebbero cercato riparo dalle raffiche delle mitragliatrici e dalle esplosioni dei mortai e delle bombe, loro sarebbero dovuti correre fuori per salvare la vita ai loro commilitoni feriti, senza abbandonarli al loro destino. E, infatti, andarono ben oltre quanto ordinato loro: compirono il loro dovere di soccorritori fino a quando, loro stessi, in due distinte azioni di guerra, caddero, rimanendo feriti mortalmente, al fianco di quei soldati che avevano assistito fino all’ultimo istante. E per questo vennero decorati, postumi, della massima onorificenza statunitense, la Medaglia d’Onore del Congresso. Wayne Caron, che proveniva dal una piccola cittadina del Massachusetts, Middleborough, nel 1946, entrò nella United States Navy a venti anni, non appena ebbe completati gli studi superiori: destinato presso la Navy Hospital Corps School dell’Illinois, due anni più tardi fu destinato alla 1^ Marine Division, in partenza per il Vietnam. Vi giunse il 3 luglio 1968, inquadrato nella Compagnia K, 3° Battaglione, 7° Marine Regiment.

E subito, per Wayne Caron, Infermiere di Terza Classe, iniziò la dura vita del fronte, della giungla, delle imboscate dei Vietcong e visse in prima persona il dramma personale di soldati poco più che ventenni catapultati in un conflitto a migliaia di chilometri dalle loro case. Inviato il suo reparto nella Provincia di Quang Nam alla ricerca del nemico, il 28 luglio si accese una furiosa battaglia: immediatamente, due Marines caddero mortalmente feriti, mentre lo stesso Caron venne raggiunto e ferito da un colpo di fucile. Nonostante il dolore e la perdita di sangue, si adoperò fin da subito per soccorrere i suoi compagni feriti, mentre l’intera Compagnia K era rimasta bloccata dal fuoco delle armi automatiche dei Vietnamiti. Ferito una seconda ed una terza volta, nonostante i suoi stessi superiori gli ordinassero di sospendere l’assistenza medica e di portarsi al riparo per medicarsi le ferite, ignorò quanti gli suggerissero di desistere dal suo compito: continuò nel lavoro a cui era addestrato e a medicare quanti cadevano sotto il fuoco nemico, fino a quando, venne investito in pieno dall’esplosione di un razzo anticarro. A nulla valsero i soccorsi dei Marines vicini: le ferite, questa volta, risultarono fatali. Insignito postumo della Medal of Honor dal Presidente Richard Nixon, a Wayne Caron venne intitolato, alla fine degli Anni Settanta, un cacciatorpediniere della Classe Spruance.

David Ray, invece, proveniva da McMinville, nel Tennessee, e di anni ne aveva 24 quando, il 12 luglio 1968 giunse nel Vietnam del Sud, inquadrato nel 2° Battaglione, 11° Marine Regiment. Il 19 marzo 1969, un reparto dell’Esercito Popolare del Vietnam condusse un attacco contro le posizioni degli Americani di Phu Loc: a fatica i Marines respinsero i reiterati attacchi degli avversari, che combattevano avendo dalla loro una miglior conoscenza del terreno circostante. E non appena iniziata la battaglia, David Ray si portò in prima dove i feriti aumetavano di minuto in minuto. Praticamente da solo, prestò le prime cure ai più gravi, permettendo ai portaferiti di trasportali in una zona sicura, al riparo dai proiettili e dalle esplosioni. Lui stesso dovette imbracciare le armi per respingere un assalto alla sua posizione, rimanendo ferito mentre stava tamponando le ferite di un Marine gravemente colpito. E al pari di Wayne Caron, non lasciò il campo di battaglia, continuando ad occuparsi dei feriti. Ma fu l’ultimo suo atto a consacrarlo per la Medal of Honor: scorto un soldato vietnamita che aveva lanciato una granata, si gettò sul soldato ferito che stava medicando, facendo da scudo con il suo corpo e salvandogli la vita.

Fiamme e morte nel deserto di Abu Dhabi

Rientravano da un volo addestrativo-dimostrativo, i dieci militari dell’Aviazione dell’Esercito e i cinque tecnici civili della Società Agusta, quel 30 marzo 1980 nel deserto di Abu Dhabi. La sortita, una delle tante compiute nel piccolo paese mediorientale, si era svolta senza intoppi nei pressi della Collina Jebel Hafit, circa 160 chilometri dalla Capitale degli Emirati Arabi Uniti. Un volo che rientrava tra i tanti in programma a fini strettamente commerciali, in un momento in cui le aziende italiane avevano aperto il proprio mercato a Marocco, Iran e Libia, per la fornitura di qualche centinaio di Elicotteri CH-47 Chinook. Ma al momento dell’atterraggio, uno dei due rotori del grosso mezzo da trasporto, urtava contro un ostacolo, facendolo precipitare al suolo in una palla di fuoco incandescente, che non avrebbe lasciato scampo a buona parte del personale che si trovava a bordo: dieci i militari deceduti sul colpo e il giorno seguente per le gravi ferite e ustioni, mentre tre furono i tecnici della Agusta a perdere la vita. In un momento in cui l’Italia non era impegnata in grandi e dispendiose missioni all’estero, nella primavera del 1980 giunse da migliaia di chilometri di distanza questa drammatica notizia. I soldati, tutti appartenenti al 1° Raggruppamento Aviazione Leggera dell’Esercito Antares, erano i Capitani Raffaele Lombardi, Angelo Manasse e Franco Scotto, i Marescialli Ordinari Dario Cerbini, Alfonso Marini, Domenico Recanati e Renato Tavano e i Sergenti Maggiori Nicola Chiarella, Francesco Di Bella e Andrea Tognetti.

Per alcuni di loro, a causa della vastità delle ustioni che ricoprivano quasi per intero la superficie del corpo, fu quasi impossibile l’identificazione, se non per piccoli segni di riconoscimento sul corpo o per alcuni oggetti che si erano portati con loro durante il volo nelle proprie uniformi. E, come spesso avviene in queste circostanze, subito si levarono interrogativi, polemiche, domande sul perché dei militari si trovassero in uno Stato estero a promuovere, per delle imprese, un mezzo militare da destinare all’esportazione. Scrisse, infatti, il Corriere della Sera già 1° aprile seguente: “Perché è accaduto? Che missione assolveva il Chinook col suo equipaggio militare negli Emirati Arabi? Una semplice dimostrazione? Domande angosciose per le famiglie che questa mattina a Viterbo daranno l’ultimo saluto ai loro cari rientrati in volo con un C130 della 46^ Aerobrigata. Perché proprio loro? Perché c’erano dei militari italiani deputati alla difesa del Paese e non alla vendita di mezzi militari all’estero? Molte risposte, peraltro, ci sono già. Le più immediate, quelle che si pone la pubblica opinione ignara di commercio estero sono queste. E’ un uso consolidato che mezzi militari di alta tecnologia prodotti, direttamente o su licenza in Italia, vengano propagandati all’estero con il concorso delle Forze Armate”.

In Italia si susseguirono interrogazioni e interpellanze parlamentari, a cui l’allora Ministero della Difesa, l’Onorevole Lelio Lagorio, cercò di rispondere con le poche e frammentarie notizie che provenivano dagli Emirati Arabi. Soprattutto, per quanto riguardava le cause della tragedia. Fu appurato che, molto probabilmente, durante le ultime fasi dell’atterraggio su una piazzola dedicata, il Chinook, Matricola MM80825, urtò un palo o altra struttura con il rotore di coda: i piloti, nonostante cercassero di mantenere il controllo dell’elicottero, nulla poterono fare quando a seguito di ulteriori impatti con il suolo, dal serbatoio del carburante, danneggiato, iniziarono a divampare le fiamme che avvolsero rapidamente tutto il velivolo. Molti morirono ai propri posti, ancora legati con le cinture di sicurezza, a dimostrazione della velocità con cui si propagò l’incendio. Con i dieci Avieri dell’Antares, persero la vita anche tre dei cinque ingegneri e tecnici civili: si trattava di Nicola Pascale, Massimo Manzo e Pierangelo Galli Capparozzo. Per almeno una decina di anni, l’incidente di Abu Dhabi rimarrà uno dei più gravi che abbia coinvolto un elicottero italiano: solo nel 1990, verrà eguagliato dalla tragedia di Marina di Ravenna, durante la quale si inabissò nel Mar Adriatico un mezzo ad ala rotante dell’Agip, che causò la morte di tredici tecnici dell’ENI.

Un triplice omicidio dietro la Stay Behind jugoslava

Un orribile triplice omicidio si ritrovarono di fronte Polizia e Carabinieri la sera compresa tra il 24 e il 25 agosto 1972: in un canalone, fuori strada, a bordo di una vettura, vennero rinvenuti i corpi senza vita di due adulti, un uomo e una donna, e di una bambina, all’apparenza di circa dieci anni. Ma l’aspetto orribile delle loro morti fu il metodo adottato: tutti freddati con due colpi di pistola alla testa. Una vera e propria esecuzione scriveranno i giornali, dopo le conferme delle autopsie: inconfondibili i fori lasciati dai proiettili calibro 7.65 sparati da una mai ritrovata pistola. Sul luogo del triplice omicidio, però, a bordo di quella stessa vettura, gli investigatori rinvennero un silenziatore, prova che l’omicida, almeno in un primo momento, si trovasse a bordo con le vittime. C’è chi parlò di omicidio passionale, dato che la bambina, di nome Rose Marie, 9 anni, era figlia naturale della donna, Tatiana Baharovic, ma non dell’uomo alla guida, Stjepan Sevo: le ricerche si indirizzarono verso l’ex marito di Tatiana, ma senza esito. Perché, forse imbeccati da qualcuno, forse per evitare incidenti internazionali, in molti finsero di vedere chi era davvero Stjepan Sevo e ciò che stava accadendo, in tutta Europa, in quel 1972: membro del movimento ustascia jugoslavo, fervente oppositore del regime di Tito, tra i principali animatori della Fratellanza Rivoluzionaria Croata. Ma anche, a detta di alcuni, membro della Stay Behind jugoslava, in stretto collegamento con la struttura clandestina italiana, Gladio, resa nota solo nel 1990. Così ha scritto il Giornalista d’Inchiesta Paolo Cucchiarelli ne Il segreto di Piazza Fontana, durante la ricostruzione dei movimenti compiuti da alcune partite di esplosivo militare lungo il confine orientale italiano, tra Italia e Jugoslavia: “Il 1972 fu un anno cruciale per gli Ustascia. Numerosi furono gli attacchi subiti. Il loro capo in esilio, Branko Jeli, venne ucciso a Berlino nel maggio da agenti dei servizi segreti jugoslavi”. E a proposito dell’omicidio della famiglia Sevo, scriverà: “A San Donà di Piave un membro della formazione ustascia, Stjepan Sevo, fu ucciso con tutta la famiglia da assassini professionisti, che usarono il silenziatore. Dietro quella carneficina c’era la mano dei servizi segreti jugoslavi”.

Ma già il 26 agosto, il Corriere della Sera accantonò la pista passionale, per deviare su quella politica. Quella pista che Cucchiarelli ha ripreso quasi quarant’anni dopo, mettendo sotto una nuova luce quel periodo torbido che sono stati gli Anni Sessanta e Settanta italiani, di quella strategia della tensione che destabilizzò la Repubblica per stabilizzarla ancora di più, per non far compiere scelte politiche e di alleanze che non erano viste di buon occhio all’estero, soprattutto al Governo degli Stati Uniti d’America e alla NATO. Perché se la famiglia Sevo si trovava nei pressi di San Donà di Piave ufficialmente in vacanza, provenienti dalla Germania, dove si erano stabiliti e lavoravano, quel confine orientale, distante solo pochi chilometri, nascondeva il mistero e la verità di un delitto tanto feroce quanto angosciante. Scriveva infatti il quotidiano milanese: “La risposta, quasi certamente, bisogna andare a cercarla nelle nebbie dentro le quali si rivelano ancora i fantasmi della guerra, nella spirale di un odio che non finisce mai. I giornalisti jugoslavi oggi a San Donà di Piave, scuotevano la testa. Noi, ha detto uno, possiamo già rimettere in tasca i taccuini degli appunti. Sappiamo tutto. E’ affare di Ustascia. Ma perché questi Sevo, fuoriusciti o figli di fuoriusciti, nemici del regime jugoslavo, si sarebbero portati proprio in questa zona, così vicina alla frontiera? Proprio perché la frontiera è vicina. Si incontrano qui con i loro amici, si passano armi, denaro, esplosivi”. Già, anche esplosivi. Forse quello stesso materiale esplodente che, passato di mano in mano, ha ucciso anche sul territorio italiano. Iniziò, pertanto, a essere presa in esame una neanche troppo strana pista jugoslava, che si sarebbe intrecciata ben presto con alcune delle ombre più inquietanti di tutta la strategia terroristica che insanguinò l’Italia, almeno fin dal dicembre 1969, quando ad esplodere fu la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, la Banca Nazionale del Lavoro e l’Altare della Patria a Roma.

Tanto che l’unico terrorista auto-accusatosi di una strage, Vincenzo Vinciguerra, autore della bomba di Peteano del maggio 1972, dove restarono uccisi tre militari dell’Arma dei Carabinieri, dal carcere ha ribadito come, sempre nel libro-inchiesta di Cucchiarelli, “sarebbe il caso di chiedersi se certi attentati all’epoca compiuti in territorio jugoslavo e attribuiti agli estremisti croati, agli Ustascia mortali nemici di Tito, non facessero in realtà parte di qualche piano di destabilizzazione della vicina Repubblica Federale Jugoslava eseguito dai servizi segreti americani ed europei”. Ma tutto questo andava ben oltre: proprio lungo il confine orientale, nei boschi e in località più o meno isolate, la rete clandestina che avrebbe dovuto attivarsi in caso di invasione dall’est, predispose una serie di depositi e armerie interrate, dentro grotte, caverne, anfratti. E, forse, qualcuno che ben conosceva la loro ubicazione, nonostante nessun attacco dall’oriente fosse avvenuto, decise che quegli esplosivi andassero impiegati ugualmente. Ma non contro un esercito invasore, per compiere azioni di sabotaggio e resistenza. Ma per compiere attentati. E una cosa è certa: all’indomani dell’attentato contro i militari dell’Arma dei Carabinieri, qualcuno cercò di capire se quell’esplosivo provenisse da uno dei tanti depositi rimasti, fino ad allora, neanche troppo segreti.