Giacomo Pagliari, con la sciabola sguainata a Porta Pia

Quel giorno, quel fatidico 20 settembre 1870, il Maggiore Giacomo Pagliari partì alla testa dei suoi Bersaglieri, del 34° Battaglione, dopo che i cannoni degli Artiglieri del Regno d’Italia avevano abbattuto un tratto di mura presso Porta Pia. Una breccia di poche decine di metri, dalla quale, riversandosi come un fiume in piena, accompagnati dagli squilli delle trombe, i soldati italiani ponevano, de facto, fine alla campagna militare contro lo Stato Pontificio, segnando ufficialmente l’annessione della Città Eterna allo Stato dei Savoia. Alla fine, le perdite da ambo le parti furono quasi irrisorie di fronte all’epicità dell’evento: fu lo stesso Generale Raffaele Cadorna, Comandante del V Corpo d’Armata, una volta consegnate alla Storia le sue memorie, a tirare le somme dell’intera impresa. Appena quarantanove morti e circa centoquaranta feriti tra i soldati italiani e poco meno di sessanta caduti, tra morti e feriti, per l’Esercito Pontificio: e tra coloro che vennero raccolti dal campo di battaglia, mortalmente feriti, vi anche il Maggiore Pagliari, colpito in pieno petto da una scarica di fucileria non appena varcata quella breccia che avrebbe consegnato per sempre Roma all’Italia e l’Italia a Roma.

Per certi versi, la storia di Giacomo Pagliari ricorda quella di tanti patrioti, nati sotto l’insegna dell’Aquila asburgica, ma dal chiaro sentimento italiano: la sua famiglia era di Persico, piccolo comune alle porte della città di Cremona, allora circoscrizione asburgica. E fu sotto l’Imperial Regio Austro-Ungarico che iniziò la sua vita militare: servì come Caporale nel 23° Reggimento di Linea, salvo poi defezionare all’alba dei moti del 1848, quando le rivolte contro il potere e il dominio degli Asburgo dilagarono in tutta la Lombardia. Da allora, dapprima per l’Armata Sarda e, in seguito, per il Regio Esercito, fu sempre al servizio di quella Bandiera di tre colori che, nel 1897, ne scriverà anche Giosuè Carducci: “il bianco, la fede serena alle idee; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch’ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà”. E di sangue, Giacomo Pagliari ne vide scorrere per essa, arrivando fino a versare il suo. Fu in battaglia a Goito, il 30 maggio 1848, dove mise in luce tutta la sua audacia e capacità di giovane ufficiale, quale Sottotenente del 1° Reggimento di Linea Lombardo; fu poi in Crimea, con il Corpo di Spedizione Italiano agli ordini del Generale Alfonso La Marmora, dove ricevette una speciale menzione direttamente dal Sovrano, Vittorio Emanuele II, per aver affrontato in battaglia, nei pressi del Fiume Cernaia, in Crimea, i soldati russi.

Il 16 agosto 1855, gli Italo-Franco-Turchi, in tutto circa 37.000, si scontrarono in battaglia contro un numero pari di Russi, nel più ampio settore del fronte di Sebastopoli. Ma, soprattutto, si distinsero i Piemontesi: appena trecento uomini ressero l’urto di una colonna nemica, attaccante fin dalla notte. Dopo la Crimea, non ci fu campo di battaglia in terra italiana che non vide prendervi parte Giacomo Pagliari: promosso Capitano e poi Maggiore, combatté a San Martino e a Palestro nel corso della Seconda Guerra d’Indipendenza e a Custoza, sotto il Generale Enrico Cialdini, nel 1866. E poi venne Roma. Gli venne affidato il comando del 34° Battaglione dei Fanti Piumati, coloro che per primi avrebbero dovuto prendere d’assalto Porta Pia: in sella al suo cavallo, sciabola sguainata, cadde colpito in pieno petto da una raffica di fucileria, per poi essere raccolta morente, sul campo di battaglia, da alcuni dei suoi Bersaglieri. Il Re d’Italia, Vittorio Emanuele II volle decorarlo di Medaglia d’oro al Valor Militare alla Memoria: “Per aver con intelligenza e ammirabile slancio condotto il proprio battaglione all’attacco della breccia di porta Pia, rimanendo a pochi passi da essa mortalmente ferito. Roma, 20 settembre 1870“.

Vincenzo Statella, dalla Sicilia al fianco di Garibaldi

Nonostante provenisse da una nobile famiglia siciliana di provata fede monarchica, legata indissolubilmente ai regnanti della casa dei Borboni, il Conte Vincenzo Statella abbracciò fin da subito la causa italiana: ma non per servire i Savoia, ma perché in lui erano forti i sentimenti repubblicani e l’ideale di vedere, dopo secoli di dominazione straniera, gli Italiani riuniti in un’unica grande Nazione. Fin da giovane abbracciò le idee rivoluzionarie e parve del tutto naturale che, al momento della Prima Guerra d’Indipendenza, si mettesse alla guida di un reparto di volontari che combatté per la causa dell’Unità: a partire dall’aprile 1848, Vincenzo Statella, con il grado di Capitano fu nominato Comandante di una compagnia del II Battaglione Volontari Napoletani. Ma ben prestò il suo destino si legò indissolubilmente a quello di Giuseppe Garibaldi: l’epopea che già era sorta attorno al condottiero dei due mondi fece presa sul giovane siciliano, tanto che partirà al seguito dei Mille. Ormai, in lui era completamente radicata che l’Unità d’Italia era possibile soltanto prestando fede ai Savoia e a quel Regno di Sardegna che lo stava perseguendo grazie all’attenta politica messa in campo da uno dei suoi più importanti ministri, il Conte Camillo Benso di Cavour.

Al fianco di Garibaldi prese parte alla battaglia di Milazzo dove, tra il 17 e il 24 luglio 1860, rimase ferito mentre ricopriva il grado di Capitano nel Gruppo Squadroni Guide a Cavallo: durante lo scontro, quando i Garibaldini attaccarono lo schieramento borbonico, che resse l’urto e l’impeto dei volontari, il Capitano Statella fece quadrato attorno a Giuseppe Garibaldi, ferito ad un piede e disarcionato dal proprio cavallo. Assieme ad un altro patriota, Giuseppe Missori, posto al comando delle Guide, riuscì a salvare la vita al condottiero dei due mondi, che, per la riconoscenza, decise di nominarlo, nell’ottobre 1860, Aiutante di Campo, nonché promosso al grado di Maggiore e Comandante della Piazza di Milazzo. Intanto, il 17 marzo 1861 si realizzava quell’unità tanto agognata con la nascita del Regno d’Italia. Nell’ottobre seguente, quale segno di profonda stima, il Re Vittorio Emanuele II insigniva il Luogotenente Colonnello Vincenzo Statella della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia “per il suo eroismo e la sua perizia di Ufficiale e Comandante di Stato Maggiore e di Cavalleria dimostrati nel corso di tutte le operazioni militari e guerresche della Campagna d’Italia. Milazzo, 20 luglio; Messina, 25 luglio; Capua, 2 novembre 1860”.

Dopo la nascita ufficiale del Regio Esercito Italiano, Vincenzo Statella transitò nelle fila del 2° Reggimento Granatieri di Sardegna. Al comando del III Battaglione prese parte alla Terza Guerra d’Indipendenza, guidando con ardimento e perizia i suoi uomini, infondendo quel coraggio necessario per prendere parte alle cariche a cavallo con sciabola sguainata. Il 24 giugno 1866, durante la Battaglia di Custoza, ebbe l’ordine di attaccare un reparto austriaco presso Monte Croce. Durante la carica, nonostante il suo cavallo fosse stato ferito a morte, invece che mettersi a riparo, proseguì l’attacco a piedi, fino a quando non venne a sua volta colpito in pieno petto. Il suo corpo non venne più ritrovato, dato per disperso a seguito della furia dello scontro: molto probabilmente, i suoi resti si trovano oggi custoditi all’interno dell’Ossario della Battaglia di Custoza, teschio senza nome tra gli oltre 1890 qui raccolti. Per la Battaglia di Custoza, dove trovò la morte, Vincenzo Stella venne decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Per il coraggio e sangue freddo dimostrati durante tutto il combattimento. Uccisogli il cavallo, continuò a piedi nel comando del battaglione, finché colpito da palla nell’ultimo attacco, rimase estinto sul campo. Monte Croce, 24 giugno 1866″.

L’ombra di Carchidio attese a Cassala

Disse Mussolini quando gli Italiani, nell’estate del 1940, erano prossimi alla conquista della città sudanese di Cassala, al confine con l’Eritrea: “L’ombra di Carchidio dei Malavolti vi attende a Cassala!”. Quell’ombra, era di un ufficiale del Regio Esercito, Capitano della Cavalleria, inquadrato nello Squadrone Cavalleria Cheren, caduto in combattimento alla fine dell’Ottocento, quando l’Italia dei Savoia muoveva i suoi primi passi sulle coste del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, ricercando quel suo posto al sole d’Africa al fianco delle grandi potenze colonizzatrici. Proveniva da una ricca famiglia nobiliare faentina Francesco Carchidio dei Malavolti: precisamente era un Conte e come tanti nobili di allora, la carriera militare la intraprese nella Cavalleria, sciabola sguainata in cariche a squillo di tromba, tra la polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli. Dapprima servì nel 16° Reggimento Cavalleggeri di Lucca, poi nel 21° Cavalleggeri di Padova. Ma la nuova frontiera italiana del colonialismo lo attirò sempre più: erano trascorsi appena pochi anni dalle prime spedizioni di Vittorio Bottego e il “mal d’Africa” colpiva anche chi non l’aveva ancora mai vista.

Nel novembre 1887 il Tenente Francesco Carchidio sbarcava nella città di Massaua, prendendo parte fin dai primi mesi alle spedizioni verso l’interno per l’occupazione di oasi e villaggi: conobbe l’allora Maggiore Pietro Toselli, caduto all’Amba Alagi nel dicembre 1895, iniziando una stretta collaborazione nella formazione di reparti di cavalleria, con cui venne riconquistata Cheren nel 1889. Durante la sua permanenza in terra africana, nonostante un matrimonio in Italia, intessé una relazione extraconiugale con una donna eritrea: nacque un bambino, a cui venne dato il nome di Michele. Allevato in Italia, primo figlio illegittimo nella storia del Regno ad essere riconosciuto dal padre naturale, erede a tutti gli effetti di legge dei Conti Malavolti, intraprenderà come il padre la carriera militare, arrivando a ricoprire il grado di Tenente Colonnello. Numerose furono le spedizioni cui Francesco Carchidio prese parte, spesso combattendo assieme alla fanteria, appiedato, respingendo gli assalti degli indigeni, come il 21 dicembre 1892, quando nelle operazioni contro le tribù Dervisci ottenne una Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Per il coraggio, per la calma e intelligenza dimostrata tanto nel disimpegnare il servizio di esplorazione, quanto durante il combattimento per trattenere, contrattaccare e inseguire il nemico. Agordat, 21 dicembre 1892″.

E poi venne la conquista di Cassala, opera del Generale Oreste Baratieri. Promosso Capitano, la cavalleria italiana, rinforzata da alcuni reparti di Ascari, sbaragliò le linee dei Dervisci, mettendoli in fuga e facendone strage. Durante l’impeto, Francesco Carchidio venne raggiunto dai colpi di undici lance, che lo disarcionarono e lo uccisero. Quel giorno, vennero conferite ben tredici Medaglie d’Argento e trentanove di Bronzo al Valor Militare. Alla Memoria del Capitano Francesco Carchidio dei Malavolti fu concessa l’unica Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Inviato, col proprio Squadrone, a tenere in rispetto un partito di cavalleria nemica, lo caricò e lo disperse, ma, circondato improvvisamente da forze soverchianti, dopo aver sostenuto una lotta sproporzionata, e aver colpito parecchi avversari, cadde, trafitto da undici colpi di lancia, mentre colla sciabola in pugno cercava farsi largo e infondere nuova lena nei suoi dipendenti. Cassala, 17 luglio 1894”.

Attilio Maggiani, dalle sabbie del deserto alle alture di Asiago

La Spezia (6)Attraversò, con la sua vita, due secoli. Classe 1869, originario della città di La Spezia, Attilio Maggiani, Maggiore del Regio Esercito, intraprese una carriera militare che lo vide impegnato là dove era più aspro il combattimento. Dalle spedizioni nell’Africa Orientale, durante le prime avventure coloniali italiane, passando per lo “scatolone di sabbia” libico tra il 1911 e il 1912, per arrivare fino alle pendici del Monte Fior e del Monte Spil, sull’Altipiano di Asiago, durante il primo conflitto mondiale. E fu proprio sullo Spil che una raffica pose fine alla sua esistenza, durante la controffensiva italiana sul Pasubio e la Vallarsa. Militare di carriera, dopo gli studi alla Regia Accademia di Modena, partì per l’Africa dove, con il grado di Tenente, Attilio Maggiani prese parte alla battaglia di Adua, inquadrato nella 4a Compagnia del Battaglione Indigeni Milizia Mobile. Il suo reparto, circondato, quel 1° marzo 1896, rischiò di essere distrutto: caduto il suo comandante, il Capitano Luigi Maccari, si mise alla testa dei pochi superstiti, riuscendo ad aprirsi la strada per la salvezza, mettendo in salvo i suoi uomini. Si meritò la sua prima Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Ricacciato il suo Battaglione, riuscì a tenere uniti i superstiti della sua centuria, prendendo parte tutta la giornata al combattimento in modo esemplare con altri reparti bianchi. Adua, 1° marzo 1896”.

Due mesi dopo la pesante sconfitta italiana ad Adua, un nuovo combattimento ebbe luogo a Tucruf, nel cui campo trincerato si erano asserragliate alcune truppe mahdiste. Credendolo abbandonato, il 2 aprile 1896 le truppe coloniali avanzarono alla sua conquista ma vennero accolte da un inteso fuoco di fucileria, che fece strage tra gli Ascari. Temendo una nuova sconfitta, a causa delle ingenti perdite subite fino ad allora, la colonna italiana iniziò il ripiegamento sulle posizioni di partenza presso Cassala: durante la strada del ritorno, numerose furono le incursioni respinte, fino a quando i soldati superstiti furono nuovamente al sicuro. Fu durante queste giornate che Attilio Maggiani si guadagnò nuovamente una Medaglia d’Argento al Valor Militare, conferita, come si legge nella breve motivazione, perché “diede prova di energia e coraggio non comuni. Tucruf, 2-3 aprile 1896”. Rimpatriato in Italia, promosso al grado di Capitano, prese parte alla campagna di Libia al seguito del corpo di spedizione italiano. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la parentesi africana di Attilio Maggiani ebbe termine al momento della dichiarazione di guerra italiana del maggio 1915. Dislocato con il 70° Reggimento Fanteria, Brigata Ancona, sull’Altipiano di Asiago, diede numerose prove di coraggio e ardimento, guidando i suoi uomini in battaglia.

Fanti italianiPromosso Maggiore, nel luglio 1916 la Brigata Ancona venne incaricata di portarsi in Vallarsa, dove era in atto la controffensiva italiana. Sulle pendici del Monte Spil, il giorno 9, il Maggiore Maggiani poco prima dell’assalto, mentre dava le ultime disposizioni ai propri ufficiali, venne raggiunto da una scarica di fucileria, rimanendo gravemente ferito. Trasportato all’Ospedale da Campo 603, decedeva poco tempo dopo. Venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria: “In previsione di un’avanzata alla quale doveva partecipare col proprio battaglione, percorreva coraggiosamente le linee più esposte per consigliare gli ufficiali ed animare i propri dipendenti. Gravemente ferito, non ebbe altro rimpianto se non quello di non poter più partecipare all’azione, continuando a dar utili consigli, finché fu trasportato al posto di medicazione. Monte Spil, 9 luglio 1916”. Tempo dopo, la parte finale della motivazione della Medaglia d’Argento, che gli era stata conferita con Decreto Luogotenenziale il 31 dicembre 1916, venne modificata nel 1925 con la seguente: “Trasportato morente all’ospedaletto da campo, vi decedeva poco dopo, per le ferite riportate, con il nome d’Italia sulle labbra. Monte Spil, 9 luglio 1916″. Oggi, le sue spoglie mortali riposano nella città di La Spezia, in un maestoso monumento posto quasi all’ingresso del Cimitero dei Boschetti.

Gli Italiani nella Guerra di Secessione americana

Guerra di SecessioneAll’inizio della Guerra di Secessione, si calcola che quasi 11.000 Americani avevano dichiarato di essere nati in Italia: la maggior parte di loro, erano sbarcati a New York per ricongiungersi con connazionali e familiari precedentemente approdati sul continente americano. Per quanto riguarda gli Italiani che combatterono tra le file dell’Unione, fonti provenienti dagli archivi sulla Guerra di Secessione presenti in America, indicano che gli Italiani servirono in vari reggimenti del Nord. Nel maggio 1861, però, si formarono due distinte unità costituite prevalentemente di emigranti italiani: la Italian Legion, che sulla bandiera americana portava un fiocco tricolore e la scritta Vincere o morire!, ed il  39° New York Volunteer Infantry, soprannominato Garibaldi Guards, che usava la stessa bandiera italiana adoperata da Giuseppe Garibaldi nel 1848 in Lombardia e nel 1849 a Roma. Le Garibaldi Guards, dai vari rapporti che sono pervenuti fino ai nostri giorni dai campi di battaglia, sappiamo che portavano una camicia di lana rossa come quella dei Garibaldini, un cappotto e pantaloni blu con strisce rosse e, ovviamente, l’immancabile tradizionale berretto piumato dei Bersaglieri. Il 39° New York Volunteer Infantry si formò a New York il 27 maggio 1861, sotto il comando del Colonnello Frederick George D’Utassy ed entrò in servizio attivo a Washington il 6 giugno 1861, dove vi rimase fino al 13 luglio, per essere aggregato all’Armata del Northeastern Virginia. Inizialmente, il 39° New York Volunteer Infantry era costituito da una compagnia di Italiani, la A, una compagnia di Svizzeri, una di Spagnoli e Portoghesi, tre di Francesi, tre di Tedeschi e tre di Ungheresi.

39° New York Volunteer InfantryA causa della durata della guerra, e delle centinaia di migliaia di morti, il 31 maggio 1863, il 39° New York Volunteer Infantry fu consolidato in quattro compagnie (denominate semplicemente A, B, C, e D); a dicembre furono formate anche le compagnie E, F, G e H, mentre nel gennaio 1864, si costituirono anche le compagnie I e K. Il 12 giugno 1865, il 39° New York Volunteer Infantry fu sciolto e i soldati che non potevano, o non volevano essere congedati, furono trasferiti al 185° Ohio Volunteer Infantry del Colonnello John Cummins. Durante il servizio, il 39° New York Volunteer Infantry perse nove ufficiali, 269 soldati e 278 aggregati (dei quali un ufficiale e 99 soldati morirono nella mani del nemico). Anche Giuseppe Garibaldi si convincerà dei propositi abolizionisti degli Stati del Nord e scriverà, il 6 agosto 1863, la seguente lettera al Presidente Abramo Lincoln: “Nella nebbia dei suoi titanici sforzi, mi permetta, come un altro tra i liberi figli di Colombo, di mandarle una parola di saluto e ammirazione per il grande lavoro che ha iniziato. I posteri la chiameranno il grande emancipatore, un titolo più invidiabile di quello che può essere qualsiasi corona e più grande di qualsiasi tesoro mondano. Lei è un vero erede degli insegnamenti che ci ha dato il Cristo e John Brown. Se un’intera razza di essere umani, soggiogati in schiavitù dall’egoismo umano, sono stati riportati alla dignità umana, alla civiltà e all’amore umano, questo è per quello che sta facendo e al prezzo delle più nobili vite in America. È l’America, lo stesso Paese che ha insegnato la libertà ai nostri avi, che ora apre un’altra solenne epoca di progressi umani. E mentre il suo tremendo coraggio lascia attonito il mondo, noi ci ricordiamo con tristezza come questa vecchia Europa, che può anche vantare una grande causa di libertà per la quale combattere, non ha trovato la mente o il cuore per eguagliarla”. Purtroppo, nonostante gli Italiani i fossero corsi in aiuto alle truppe dell’Unione, ve ne furono alcuni che vennero sacrificati e uccisi da ufficiali americani. In particolare, nel 1863, Giovanni Falaci e Giuseppe Rionese, effettivi del 118° Pennsylvania Infantry Volunteer Regiment, furono condannati a morti dopo un processo fittizio per dare un esempio a chi aveva intenzione di disertare. Erano innocenti, ma, come accadrà durante le decimazioni nel primo conflitto mondiale, vennero scelti a caso e fatti arrestare cinque soldati che non parlavano inglese, e quindi non in grado di potersi difendere di fronte alla corte marziale e alle accuse inventate: Giovanni Falaci e Giuseppe Rionese vennero così fucilati il 29 agosto 1863, assieme a George Kuhne, originario di Hannover, e a Charles Walter e Emil Lai, entrambi della Prussia.

Parata del 39° New York Volunteer InfantryTra gli Stati del Sud, il porto principale di approdo per gli emigranti italiani era quello di New Orleans, in Louisiana, e molti sbarcarono in quella città. I nostri connazionali erano presenti in tutti i reggimenti costituiti dalla Confederazione e molti soldati italiani furono impegnati in diverse battaglie, tra le quali First Bull Run, Cross Keys, North Anna, Bristoe Station, Po River, Petersburg, solo per indicare quelle più importanti. Una parte importante di questi soldati italiani furono arruolati tra i ranghi del disciolto Esercito delle Due Sicilie, reclutati con il benestare del Governo Piemontese che cercava di liberarsi del considerevole numero di prigionieri rimasti in custodia dopo la guerra con i Borboni. Per quanto riguarda lo Stato della Louisiana, furono reclutati circa 640 uomini nel 6° Reggimento delle European Brigade, il Battaglione Italian Guards ed il 5° Reggimento Cazadores Espanoles, di cui faceva parte la Garibaldi Legion (in seguito, nel 1862, il nome Garibaldi fu eliminato in seguito alle proteste degli ex soldati borbonici, poco entusiasti nel combattere in un reparto che portava il nome di colui che li aveva sconfitti). Inoltre, la Compagnia I del 10° Reggimento Fanteria della Louisiana era esclusivamente composta da ex soldati borbonici ed altri furono arruolati nella Compagnia F del 22° Reggimento Fanteria. Altri soldati italiani erano sparsi per quasi tutti i trenta reggimenti della Louisiana e molti di loro passavano da un reparto all’altro in seguito a scioglimenti di reparti e al formarsi di nuovi. Alla resa delle truppe confederate, il Generale Kirby Smith bruciò tutti gli incartamenti del 22° Infantry Regiment e, pertanto, non sono stati conservati documenti ufficiali. Ci sono però le prove del viaggio di ritorno in Italia di nove ex soldati borbonici che avevano combattuto con il 22° Infantry Regiment.

Garibaldi GuardsE alla fine della guerra civile americana, risultarono anche due Italiani decorati della Medaglia d’Onore del Congresso, la massima onorificenza conferita dal Governo di Washington. Il Conte Luigi Palma di Cesnola, nato a Rivarolo Canavese nel 1832, dopo aver prestato servizio nel 4° Reggimento Fanteria della Brigata Piemonte combattendo nel 1848-1849, partì intorno al 1860-1861 alla volta degli Stati Uniti: approdato a New York, costituì la War School of Italian Army, dove addestrava i giovani ufficiali dell’Unione. Allo scoppio del conflitto, nel febbraio 1862 decise di arruolarsi nel 4° Reggimento di Cavalleria di New York dell’Armata del Potomac, con il grado di Colonnello. Partecipò alla Battaglia di Brandy Station e nel giugno 1863 a quella di Aldie, in Virginia, dove venne fatto prigioniero dall’Esercito Confederato. Trattenuto prigioniero fino al 1864 e in seguito liberato dopo uno scambio di prigionieri, prese parte l’11-12 giugno 1864 alla Battaglia di Trevilian Station. Congedato il 4 settembre, fu nominato il 25 dicembre 1865 Console degli Stati Uniti a Cipro. Il Colonnello Thomas Hyde, invece, era originario di Firenze, dove era nato nel 1841 e, dopo essersi trasferito negli Stati Uniti, prestò servizio nel 7° Maine Infantry Volunteer Regiment. Promosso Tenente Colonnello nel 1863, durante la Guerra di Secessione partecipò alla seconda Battaglia di Bull Run del 28-30 agosto 1862, alla Battaglia di Antietam del 17 settembre 1862 (dove, per le sue azioni in combattimento, venne insignito della Medaglia d’Onore del Congresso) e alla Battaglia di Gettysburg del 1-3 luglio 1863. Nominato nel 1866 Brigadier Generale, dal 1873 venne nominato Senatore al Congresso per lo Stato del Maine.

L’Africa di Vittorio Bottego

Capitano Vittorio BottegoIl Regno d’Italia, a differenza delle altre Nazioni europee, si dedicò relativamente tardi alle avventure coloniali: fu solo nel 1882 che, grazie ad una concessione garantita alla Compagnia di Navigazione Rubattino, l’Italia si affaccerà per la prima volta su quel Corno d’Africa che nei decenni successivi prenderà la forma dell’Africa Orientale Italiana. Con la concessione della Baia di Assab, in Eritrea, iniziò la lenta penetrazione italiana in terra africana, ben presto funestata dalla battaglie di Dogali (1887) e di Adua (1896) che quasi fecero desistere da nuove imprese. In questo primo periodo del colonialismo italiano, un nome più di tutti si legò indissolubilmente a queste terre: quello di Vittorio Bottego, esploratore e Capitano di Artiglieria del Regio Esercito, che si rese protagonista, in soli dieci anni, tra il 1887 e il 1897 di importanti esplorazioni in terra africana, guidando egli stesso numerose spedizioni dal carattere non solo di conquista, ma anche scientifico e geografico. La sua epopea risuonò così a lungo che le sue gesta e le sue imprese divennero un fumetto per ragazzi. Nativo di Parma, dove era nato nel 1860 da una ricca famiglia emiliana, iniziò la carriera militare quale Sottotenente d’Artiglieria nel 1° Reggimento, dopo aver frequentato l’Accademia Militare di Torino: ma era l’Africa il suo sogno e il suo obiettivo, lui che ne aveva sentito parlare durante gli studi e letto sui giornali. Fu così destinato proprio ad Assab, da dove iniziò l’avventura italiana, ma anche la sua. Promosso al grado di Capitano, Vittorio Bottego poté così unire la sua carriera di Ufficiale a quella di esploratore: dopo la conquista di Cheren e Massaua, dove prese il comando di una batteria di cannoni, il suo obiettivo divenne l’Oltre Giuba, una terra inesplorata su cui erano state formulate solo teorie sulle popolazioni che vi erano stanziate e sulle risorse presenti.

Vittorio BottegoEd ecco che iniziarono le sue esplorazioni in quel “cuore di tenebra” di cui scriverà nel 1899 Joseph Conrad a proposito dell’espansionismo belga di Re Leopoldo II lungo il Fiume Congo. Le sue ambizioni, però, almeno inizialmente subirono un arresto imprevisto: la crisi del Governo di Francesco Crispi e il suo trasferimento a Firenze, presso il 19° Reggimento Artiglieria, causarono una fine anticipata alla sua prima spedizione, iniziata nel 1891 in Dancalia. Ma il 30 settembre del 1892, da Massaua, iniziava la spedizione nel Giuba, che lo avrebbe portato, di li a pochi mesi, nel febbraio 1893, a scoprire le sorgenti del Monte Fauches: tutto ciò avvenne non senza difficoltà, tra le insidie del territorio inesplorato, gli scontri con le popolazioni indigene che vivevano nell’area e che mai si erano imbattuti in un cittadino europeo e, in ultimo, l’insubordinazione di un suo sottoposto, che abbandonò la spedizione in quanto ritenuta troppo pericolosa. Un anno dopo, sul finire del 1893, rientrò in Italia, approdando a Napoli, portando con sé un’inestimabile collezione di animali e insetti raccolti e catalogati con dovizia di particolari e oltre a parecchie centinaia di fotografie scattate da lui stesso. L’eco del suo viaggio rese il Capitano Vittorio Bottego molto popolare, tanto che per le sue prime esplorazioni, il Re Umberto I gli conferiva la Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Per il valore e l’intelligenza dimostrata nel guidare una spedizione in regione inesplorate dell’Africa Orientale, durante la quale spedizione dovette sostenere vari combattimenti con diverse tribù ostili. 1892-1893”.

L'Eroe del GiubaMa quello che verrà chiamato da tanti il mal d’Africa, quella nostalgia che sarà comune a tanti esploratori contemporanei a Bottego, lo indurrà a preparare una nuova spedizione, che riceverà l’appoggio del Ministero degli Affari Esteri e della Società Geografica Italiana. Obiettivo della nuova spedizione, forte di oltre 250 uomini, tra militari e Ascari arruolati in Eritrea, le terre inesplorate lungo il Fiume Omo, raggiunto alla fine del giugno 1896. Scrissero il Sottotenente Carlo Citerni e il Sottotenente di Vascello Lamberto Vannutelli, compagni di viaggio di Vittorio Bottego: “restiamo là, attoniti, silenziosi, a contemplar quella plaga sconosciuta che la fantasia, tante volte, in mille diverse maniere, era venuta dipingendoci, e che ora si distendeva dinanzi a noi in tutta la solenne sua realtà”. Intanto, una grave tragedia era gravata sulla spedizione: una colonna guidata da Maurizio Sacchi, esploratore e scienziato, era stata distrutta dagli Abissini il 5 febbraio 1897, dopo che Bottego l’aveva incaricata di recuperare alcune attrezzature scientifiche lasciate indietro per agevolare l’esplorazione. E quaranta giorni dopo, mentre era sulla via del ritorno, dopo essere giunto fino al Fiume Nilo, il 17 marzo la colonna del Capitano Bottego cadeva anch’essa in un’imboscata alle prime luci dell’alba: cadde armi in pugno, colpito alla testa e all’addome da una scarica di fucileria. Gli fu decretata la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Dimostrò sagacia ammirevole nel dirigere una spedizione scientifico-militare nell’Africa Equatoriale attraverso paesi inesplorati e fra popolazioni ostili e bellicose e spiegò eccezionale coraggio attaccando con soli 86 uomini un nemico forte di circa un migliaio di combattenti e morendo eroicamente sul campo ferito al petto e alla testa da due colpi di arma da fuoco. Gobò, Paesi Galla, 17 marzo 1897”.