2 marzo 1918, la fine del Distaccamento di Foppa

Li conoscono bene, la gente di montagna, i pericoli sempre in agguato. Dirupi, burroni, valanghe di neve, lastre di ghiaccio che si staccano all’improvviso sotto un piede spesso inesperto. Ma anche chi è avvezzo a certi pericoli, sa di non sottovalutarli mai. La morte, in montagna, specialmente sotto la neve, può cogliere in qualsiasi istante, improvvisa, silenziosa. E così accadde anche più di cento anni fa, mentre l’Italia era in guerra già da tre anni contro l’Impero Asburgico e lungo il Piave i fanti cadevano a migliaia davanti ai reticolati e sotto i bombardamenti dell’artiglieria. Quel marzo 1918 era particolarmente gelido, nevicava da parecchi giorni e a Dosso del Liro, piccolo comune oggi in provincia di Como, aveva sede un Distaccamento di Fiamme Gialle, uomini della Guardia di Finanza comandati a vigilare sui confini italiani, a poche centinaia di metri dalla neutrale Svizzera. Li comandava un sottufficiale di origini siciliane, il Brigadiere Agostino Magro, originario di Agrigento, dove era nato nel 1890. E dalla sua amata Sicilia, era finito tra le montagne e le cime della Val Solda, sul Lago di Como. Effettivo alla Legione della Guardia di Finanza di Milano, di tanto in tanto, con pochi uomini, si recava alla piccola Caserma di Foppa, a circa 1200 metri di quota sopra il centro abitato di Dosso del Liro, per presidiare quel confine sempre più soggetto alle scorribande di trafficanti e contrabbandieri.

Quel 2 marzo 1918, nonostante le incessanti nevicate e la poca visibilità, il presidio dei Finanzieri era occupato come sempre. Da valle, il Brigadiere Magro cercò di far salire alcune pattuglie per il cambio del distaccamento presente, considerando che i viveri scarseggiavano e per il freddo intenso si rendeva assolutamente necessario il cambio. Ma la neve alta diversi metri non permise al Distaccamento di Foppa di essere raggiunto, fatto che fu la salvezza delle pattuglie inviate dalla valle. Verso le ore 15.00, infatti, tutta la montana tremò improvvisamente: un’enorme valanga si era staccata dalla sommità, schiantandosi contro la piccola caserma in pietra, radendola al suolo e comprendola con il suo bianco manto. Ma sotto di essa, si stava consumando la tragedia di nove uomini: quando giunsero i soccorsi, scalando macerie, neve instabile e lastre di ghiaccio, essi lottarono contro il tempo per trarre fuori i superstiti. Purtroppo, solo due Guardie di Finanza, Pietro Nicolai e Giuseppe Principe, furono estratti ancora vivi, con qualche escoriazione e contusione sul corpo. Ma vivi. Il Brigadiere Magro, invece, non sopravvisse. Così come trovarono la morte sotto la neve, i Finanzieri Ugo Cacioli, Emilio Feltrinelli, Martino De Ambrogi, Gelardo Mancini, Calogero Falsone e Enrico Bonaconsa, unitamente a due abitanti del luogo, Giuseppe e Luigi Pisolo, che avevano l’incarico di rifornire di viveri ed equipaggiamenti il presidio.

I corpi dei caduti furono recuperati non senza difficoltà, trasportati a valle per centinaia di metri dalla furia della natura: il Distaccamento di Foppa non esisteva più, e mai più esisterà. Ancora oggi, dove un tempo si ergeva la piccola casermetta della Regia Guardia di Finanza è rimasto solo un piccolo perimetro di pietre, un tempo le pareti e i muri distrutti in quel marzo 1918. Ai funerali che si celebrarono qualche giorno dopo, partecipò tutta la cittadinanza di Dosso del Liro, che ormai aveva adottato quei militari provenienti da regioni distanti centinaia di chilometri. Ma anche i commilitoni del Brigadiere Magro e dei suoi uomini non li dimentricheranno mai più: già dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, fu eretto un cippo in pietra a perenne ricordo della tragedia e dei caduti, mentre ogni anno, Finanzieri in servizio e in congedo, si riuniscono per commemorare con una piccola cerimonia quelle Fiamme Gialle che, sebbene non caddero per cause belliche sul Piave o sul Grappa, trovarono la morte durante l’espletamento dei loro compiti di vigilanza lungo i confini.

Carlo Erba, un pittore in trincea

Là, tra le trincee ai piedi del Monte Ortigara, condivise le fatiche della guerra con altri artisti, pittori e scultori, poeti e letterati. Come molti esponenti della corrente futurista, tra cui Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, Antonio Sant’Elia e Mario Sironi, anche Carlo Erba fu in prima linea, interventista tra gli interventisti, pronto a battersi in quella che per molti di loro era la “sola igiene del mondo” ma che in realtà non era che “un’inutile strage”. Artista poliedrico, pittore prima per ribellione verso una famiglia borghese, poi per passione, il milanese Carlo Erba, dopo un breve trascorso anarchico, si avvicinò a questa nuova corrente che aveva in Marinetti il suo massimo esponente. E quando, quell’Italia proletaria mosse di nuovo guerra nel maggio 1915, fu tra i primi ad aderire e ad arruolarsi volontario nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti, reparto del Regio Esercito nel quale andranno proprio a confluire molti dei Futuristi. Il Battaglione, dopo un periodo di addestramento nella periferia milanese, nei pressi di Gallarate, nell’ottobre 1915 entrò presto in azione. Era il giorno 21: di prima mattina, il reparto iniziò a muovere in direzione della linea da occupare, sotto il fuoco dell’artiglieria e degli shrapnels austriaci. Tre giorni dopo, l’attacco. Inestate le baionette, i soldati del Battaglione Ciclisti e gli Alpini attaccarono risolutamente le trincee nemiche tra Dosso Casina e Dosso Remit, sulle pendici settentrionali del Monte Altissimo.

Delle fatiche di guerra, Carlo Erba lascerà bozzetti, disegni, schizzi: uno spaccato della vita tra assalti alle trincee, lunghe attese nei rifugi, notti di guardia e di sentinella. E, intanto, in lui maturò l’idea di fare domanda nel Corpo degli Alpini: arruolato nel 5° Reggimento, Battaglione Monte Spluga, con il grado di Sottotenente, verrà ferito durante un’azione in alta montagna, mentre in un’altra occasione, il 2 novembre 1916, con grande coraggio, e incurante della propria incolumità, riuscì a trarre in salvo due commilitoni feriti, rimasti isolati a Punta Vallero, sulle Alpi Giulie: caricandoseli sulle spalle, e con grande sforzo fisico, li portò al riparo nelle linee tenute dalle Penne Nere, mentre tutto attorno cadevano i proiettili nemici e nell’aria fischiavano le raffiche delle mitraliatrici e della fucileria austriaca. E fu in trincea che la sua visione della guerra subì un lento, inesorabile, mutamento. Non più quell’igiene del mondo decantata appena un anno prima, bensì, come scrisse in alcuni suoi appunti e lettere, “la grigia uniforme monotonia di migliaia di uomini che aspettano vigilando, muoiono avanzando nell’irto groviglio di reticolati, è la musica del cannone e la rabbia delle raffiche di mitraglia”.

Promosso Tenente, Carlo Erba inizò il nuovo anno di guerra, il 1917, tra l’Altopiano di Asiago e l’Ortigara. Riuscì ad alternare la trincea con brevi licenze a casa, in una Milano diversa da come l’aveva lasciata: molte le famiglie che avevano perso un padre, un fratello, un figlio. E ancora, di questa guerra, non si vedeva la fine. Fu così che il Battaglione Monte Spluga, nel quale Erba era inquadrato, nel giugno 1917, fu ammassato sotto Quota 2012 di Cima del Campanaro: il giorno 11 entrò in azione, attaccando le difese nemiche presso Monte Castelnuovo, occupando alcune posizioni su Quota 2101. Nei successivi giorni gli Alpini sostennero alcuni duri contrattacchi nemici, assaltando a loro volta, all’arma bianca, le trincee avversarie: fu il giorno 13 giugno che il Tenente Carlo Erba non fece più ritorno alla propria linea. Fu decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla Memoria: “Costante dell’esempio di calma e fermezza d’animo in ogni circostanza, cadeva colpito a morte mentr, incurante di sé, percorreva, sotto violento fuoco di mitragliatrici nemiche, la fronte del proprio reparto per incorare i soldati. Monte Ortigata, 13 giugno 1917”. Il corpo, successivamente recuperato e sepolto a valle, andò disperso poco dopo: un violento fuoco dell’artiglieria austriaca colpì l’improvvisato campo santo dove le Penne Nere avevano raccolto i propri caduti, disperdendone per sempre i resti.

I Mascabroni alla conquista del Passo della Sentinella

Sfidare crepacci e cime che sfioravano i tremila metri di altezza. Ghiacciai e pendii scoscesi, dove un minimo passo falso equivaleva a morte certa. Eppure, c’è chi sfidò i pericoli della montagna, che, se paragonati a quelli della guerra, erano altrettanto, se non maggiormente, mortali. Lungo tutto l’arco delle Dolomiti, Italiani e Austriaci si affrontarono in una guerra verticale, fatta di coraggio e ardite imprese, di scalate e cordate su ripide pareti, nemici accomunati da un nemico comune: quello della natura. E tra le cime delle Alpi, tanti furono gli uomini che scrissero il proprio nome nella memoria. Sepp Innerkofler e la sua “pattuglia volante”, il giovane Tenente Felix Hecht, sono solo alcuni di questi protagonisti, affiancati da quelle Penne Nere, gli Alpini, abituati alle altitudini elevate e alle fatiche della montagna. Soprattutto, un piccolo gruppo di una trentina di militari divenne quasi una leggenda: i Mascabroni. Adottarono un soprannome che nel gergo alpino era sinonimo di gente rude, ardita, incurante dei disagi e dei pericoli. Li guidava un giovane Capitano, Giovanni Sala, nativo di Borca di Cadore, esperto rocciatore e profondo conoscitore di quelle montagne che tante volte aveva scalato in gioventù, quando nelle valli delle Dolomiti regnava la pace e Italiani e Austriaci si ritrovavano a salire in lunghe cordate uno accanto all’altro.

Innerkofler e Sala erano stati divisi dalla guerra: il 4 luglio 1915, durante un combattimento sul Monte Paterno, Sepp rimase ucciso e la sua salma, recuparata proprio da quegli Alpini che aveva combattuto fino ad un istante prima, fu tumulata sulla stessa cima che così tanto arditamente aveva conteso agli Italiani. E quando il comando italiano ordinò la conquista di Cima Undici, a 3092 metri di quota, fino al Passo della Sentinella, passando dalla Forcella Dal Canton, il Capitano Giuseppe Sala scelse personalmente gli uomini che avrebbero costituito la sua unità, provenienti dai Battaglioni Pieve di Cadore e Fenestrelle, considerati tra i migliori rocciatori tra le Penne Nere. L’azione scattò fulminea il 16 aprile 1916 sotto gli occhi sbigottiti e attoniti degli stessi nemici: la Cima Undici era, infatti, quasi del tutto sguarnita, in quanto le vie d’accesso dal versante italiano erano ritenute impraticabili e pericolose. Ma quando il distaccamente austriaco si ritrovò dinanzi gli uomini del Capitano Sala quasi si arresero senza combattere, cadendo tutti prigionieri. L’azione durò in tutto pochissime ore e quasi senza perdite: da parte italiana vi furono soltanto cinque feriti. Ma gli Italiani ottennero anche un secondo risultato: tagliarono le linee di comunicazioni austriache e privarono l’artiglieria nemica di un valido punto di osservazione.

Al Capitano Sala, per aver ideato l’azione, verrà conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Organizzò e condusse a termine, con costanza e sprezzo del pericolo, nel cuore dell’inverno, l’occupazione di un’impervia posizione, vincendo difficoltà ritenute insormontabili. Eludendo, poi, meravigliosamente, l’attiva vigilanza del nemico, riuscì, alla testa di un manipolo di arditi, a piombare di sorpresa, scendendo lungo una parete quasi a picco su una posizione nemica, della quale s’impossessò. Mirabile esempio di calma e coraggio. Cima Undici, 16 aprile 1916”. Ma quella conquista fu merito anche di un’altro alpino, irredentista, nato a Trento: Italo Lunelli. Grazie al suo operato, guidando una squadra di Penne Nere, riuscì a chiudere l’accerchiamento verso Cima Undici, consentendo al grosso della formazione italiana di procedere alla conquista della vetta. A lui verrà poi conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Esempio del più fulgido e cosciente ardimento, instancabile e sprezzante l’ogni pericolo, audace fino alla temerità, ponendo in non cale le gravissime conseguenze cui si esponeva come volontario trentino, prodigava l’opera sua indefessa d raggiungimento dell’ideale che lo aveva spinto ad arruolarsi nell’esercito italiano, a liberazione cioè della terra natia dal giogo straniero. Nelle epiche giornate per a conquista del Passo della Sentinella, riusciva ad occupare, scalando pareti di roccia e di ghiaccio, un impervio gruppo montano, compiendo un’impresa alpinisticamente memorabile e militarmente indispensabile per la conquista dell’importante località. Nel giorno dell’attacco, col suo plotone scalava per primo e riusciva ad occupare di sorpresa una posizione dominante il Passo e le linee di rifornimento del nemico, volgendone in fuga i rincalzi e concorrendo efficacemente alla definitiva conquista. Passo della Sentinella, 16 aprile 1916″.

Frank Luke in lotta contro i palloni aerostatici

Accreditato di diciannove vittorie aeree, primo appartenente dell’Air Force statunitense a ricevere, seppur postuma, la Medal of Honor, il Tenente Frank Luke dimostrò di essere uno tra i migliori piloti del 27° Aero Squadron, volando su Biplani SPAD XIII sopra la campagna francese. Figlio di emigranti tedeschi che tentarono la fortuna nel Nuovo Mondo, passò la sua infanzia tra la scuola e le miniere di rame dell’Arizona, dove la sua numerosa famiglia (era quinto di otto tra fratelli e sorelle) si era stabilita. Fu l’ingresso della sua Patria adottiva nel primo conflitto mondiale a dare una svolta nella sua vita che, sebbene conclusa poco più di anno dopo, rese Frank Luke immortale, tanto negli Stati Uniti quanto all’estero. Arruolatosi nell’aprile 1917 nell’Aviation Section, diretto antenato dell’United States Air Force nel periodo tra il 1914 e il 1918, venne inquadrato con il grado di 2° Tenente nel 27° Aero Squadron, a sua volta il precursore dell’attuale 27° Fighter Squadron. Dopo un addestramento come pilota in Texas e in California, durante il quale mise in mostra le sue abilità ai comandi degli apparecchi d’addestramento, nel marzo 1918 approdò con il Corpo di Spedizione statunitense nel Vecchio Continente, venendo dislocato in Francia: fu qui che il suo destino, e il suo nome, si legarono indissolubilmente ad un altro pilota del 27° Squadron, il Tenente Joseph Frank Wehner.

Tra Luke e Wehner era nata una solida amicizia: entrambi sapevano che, lassù nel cielo, l’uno poteva contare sull’altro, anche quando la lotta si sarebbe fatta implacabile contro la caccia tedesca. Intanto, ai gruppo di volo dello Squadrone di Luke, venne dato l’ordine primario di concentrarsi sull’abbattimento dei palloni aerostatici nemici, utilizzati per il tiro dell’artiglieria e per la ricognizione: seppur bersaglio facile da colpire, essendo quasi sempre immobili e ancorati al suolo, erano difesi da numerose postazioni di contraerea, pronte a colpire i velivoli alleati in avvicinamento. La coppia, divenuta inseparabile, iniziò così una serie di fortunate missioni, dove i successi conseguiti si succedevano uno dietro l’altro. Ma anche il rischio aumentava: osando sempre di più, avvicinandosi sempre di più, sfidando in combattimento la caccia tedesca in volo, il 18 settembre 1918 si compì l’infausto destino di Joseph Wehner. Per tentare di salvare l’amico attaccato da due Caccia Fokker DVII, il Tenente Wehner venne inquadrato nel mirino delle mitragliatrici di Georg von Hantelmann, Asso tedesco accreditato di venticinque vittorie aeree. Nulla poté fare Frank Luke quando vide il velivolo del compagno schiantarsi al suolo in una palla di fuoco nelle campagne vicino Serronville. O meglio, qualcosa riuscì comunque a fare: accecato dall’ira e dalla rabbia, riuscì ad abbattere due Fokker e altrettanti palloni, prima di rientrare alla base.

Con la missione del 18 settembre, Frank Luke raggiunse intanto le tredici vittorie confermate: praticamente un record, se si considera che in appena dieci sortite nei cieli francesi, svolte nei giorni successivi, raggiunse le diciotto vittorie, un primato, questo, rimasto imbattuto per tutta la durata della Prima Guerra Mondiale. Intanto, sul fronte francese si stava preparando quella che sarebbe dovuta essere l’ultima grande offensiva per sfondare definitivamente il fronte tedesco: l’Offensiva della Mosa-Argonne, che prese avvio il 26 settembre e che ebbe termine l’11 novembre successivo, con la cessazione delle ostilità. Fu in quei giorni che Luke mise a segno nuove, clamorose, vittorie: dal carattere spesso sofferente delle gerarchie militari, rischiando anche gli arresti, si alzò in volo senza permesso, volando alla volta delle retrovie di Verdun, dove erano stati segnalati dei palloni aerostatici che fornivano i dati di puntamento per l’artiglieria. Nonostante il suo SPAD XIII fosse stato precedentemente danneggiato, si inoltrò, da solo, in territorio nemico: raggiunta la cittadina di Dun-sur-Meuse, sei miglia all’interno delle linee nemiche, abbatté con raffiche precise e letali i tre palloni. Era il 29 settembre 1918. Sulla strada di ritorno, un proiettile di mitragliatrice sparato da una collina vicina lo raggiunse alla spalla: ferito e sanguinante riuscì a fare atterrare il proprio velivolo nei pressi del Ruisseau de Bradon, un torrente affluente della Mosa. Ma non si diede per vinto: durante la fase di discesa mitragliò una colonna tedesca in marcia, prima di atterrare in una vicina radura. Uscito con le sue forze dal velivolo, estrasse la sua pistola Colt e iniziò a far fuoco contro un gruppo di Tedeschi intenzionati a catturarlo: cadde poi riverso al suolo, dissanguato per la ferita riportata in volo. Oggi riposa nel grande Cimitero di Guerra di Meuse-Argonne, assieme ad altri 14.200 Caduti americani.

Giuseppe Di Rorai, Eroe di Marsa Brega

Personificazione vera delle più elette virtù militari, eroica figura di Ufficiale seppe anche combattendo contro i ribelli della Cirenaica far rifulgere il suo indomito valore e mostrarsi degno delle ambite ricompense di cui era già insignito. In testa alla sua Compagnia a Uadi Mftam seppe con somma perizia, con slancio ammirevole, con prontezza ed energia, condurre vittoriosamente il primo attacco delle nostre truppe contro un forte campo ribelle, che sconfisse mettendolo in precipitosa fuga. A Marsa Brega il suo contegno calmo e sereno di fronte al soverchiante nemico suscitò l’ammirazione dei suoi Ascari. Colpito a morte mentre col grido fatidico di Savoia! trascinava i suoi all’assalto rivolse il suo ultimo pensiero alla Patria lontana, inneggiando alla vittoria delle nostre armi. Uadi Mftam, 29 marzo 1923; Marsa Brega, 11 giugno 1923“. Con questa motivazione venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria al pluridecorato combattente della Prima Guerra Mondiale, Capitano Giuseppe Di Rorai, caduto in battaglia in Cirenaica durante le fasi culminanti della riconquista dello “scatolone di sabbia” libico, mentre si trovava al comando della 1^ Compagnia del VII Battaglione Eritreo. Originario di Loreo, in provincia di Rovigo (vi era nato nel 1895), fu chiamato a prestare il servizio di leva nell’81° Reggimento Fanteria nel dicembre 1914, mentre frequentava gli studi di ragioneria. Presto, però, l’entrata in guerra dell’Italia lo portò a frequentare un corso per Allievi Ufficiali di Complemento: con il grado di Sottotenente, Giuseppe Di Rorai venne infine destinato al 2° Reggimento, Brigata Granatieri di Sardegna.

Destinato con il reparto nelle vallate attorno Monfalcone, condusse i suoi in battaglia con estremo coraggio, meritandosi la sua prima Medaglia d’Argento al Valor Militare durante le fasi più concitate dell’offensiva austriaca nell’Altipiano di Asiago, nota come Strafexpedition: più volte gli verrà affidato il comando di piccole pattuglie con il compito di portarsi a ridosso delle linee avversarie per saggiarne la consistenza e la dislocazione. Recita la motivazione dell’onorificenza: “Guidava con intelligente e valoroso ardire una ricognizione nelle linee avversarie, riportandone utili informazioni e catturando prigionieri. In un violento e breve combattimento di sorpresa, con lotta corpo a corpo, caduto in mano del nemico e disarmato, riusciva con gran coraggio e destrezza a liberarsi; bell’esempio di coraggio ai compagni e ai gregari. Altopiano di Asiago, 24-30 maggio 1916“. Arginata l’offensiva austriaca, e promosso al grado di Tenente, Giuseppe Di Rorai fu nuovamente destinato al Carso, dove i Granatieri diedero ottime prove di valore e di coraggio sulle alture del Cengio, della Val Magnanoboschi e del Monte San Michele. Assieme alle Brigate di Fanteria Ferrara, Catanzaro e Brescia, a costo di gravi perdite, avranno la meglio in numerosi combattimenti, spesso affrontati all’arma bianca. Una nuova prova venne offerta nell’agosto 1917, quando fu ordinato al 2° Reggimento di procedere alla conquista di Stari Lovka, una delle principali cime di Sella delle Trincee: la mattina del 19 agosto, i Granatieri balzarono all’assalto, conquistando di slancio le prime linee avversario. Costretti a trincerarsi per il costante fuoco delle mitragliatrici, l’offensiva riprese il giorno seguente con maggior vigore, cosa che portò gli Italiani fino all’abitato di Selo. Fu qui che il Tenente Di Rorai si meritò la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Incaricato di provvedere al collegamento con reparto di altro corpo, guidando con abilità la propria compagnia, assolse lodevolmente il suo compito. Mantenne poi la posizione occupata per il collegamento, respingendo contrattacchi nemici in forze superiori e dando bello esempio di virtù militari. Selo, 18-23 agosto 1917“.

Promosso Capitano e ritiratosi sul Piave dopo le giornate di Caporetto, durante le quali ai Granatieri venne ordinato di proteggere le retrovie delle lunghe colonne di soldati italiani, già il 14 gennaio 1918 il 2° Reggimento contrastò il nemico nei pressi di Capo Sile, durante i tentativi di ampliamento della testa di ponte. Al comando di una Compagnia, Di Rorai fu incaricato di neutralizzare alcune postazioni di mitragliatrice, meritandosi una nuova Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Conduceva compatta e ordinata la propria Compagnia all’assalto e alla conquista di una posizione sotto il violento fuoco nemico di mitragliatrici. Sosteneva poi e respingeva con fermezza, tenacia e coraggio mirabili ripetuti contrattacchi avversari, infondendo con il suo esempio la calma ed il vigore nei propri dipendenti. Capo Sile, 14-16 gennaio 1918“. Replicò magnificamente il successivo 2 luglio, quando una nuova offensiva portò i fanti italiani, dalla testa di ponte di Intestadura-Capo Sile, ad avanzare fino alla Piave Nuova: a costo di gravi perdite, le operazioni ebbero successo e al mattino del 6 luglio l’obiettivo fu raggiunto, attestando la nuova linea italiana tra La Trezza e Passo del Palazzetto. Intanto, giunse per il Capitano Di Rorai la terza onorificenza al Valor Militare, una nuova Medaglia d’Argento: “Alla testa della sua compagnia al grido di “Savoia” si lanciò all’attacco di una trincea nemica con tale impeto da indurre il nemico alla resa. Attaccato di fianco da forze nemiche, calmo ma risoluto, contrattaccò con largo getto di bombe a mano, uccidendo parte degli attaccanti e facendo prigionieri. Durante il resto della giornata fu sempre esempio magnifico di slancio, coraggio ed ardire. Casoni-Colle dell’Orso, Carso, 2 luglio 1918“. Transitato alla fine del conflitto in servizio permanente effettivo, gli venne affidato il comando della 1^ Compagnia del VII Battaglione Eritreo: giunto a Massaua nel 1919, il Capitano Di Rorai fu mobilitato con il suo Reparto per la Cirenaica. Nuove prove di coraggio lo attesero, fino alla tragica giornata dell’11 giugno 1923 quando, caduto in un’imboscata di ribelli arabi nei pressi di Marsa Brega, cadde alla testa dei suoi Ascari, mentre li trascinava con l’esempio all’assalto.

Nicola Pizi, dalla Libia al Monte Sei Busi

Già a diciassette anni, Nicola Pizi dimostrò tutto il suo attaccamento all’Italia e alle sue genti: originario della cittadina di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, dove era nato nel 1891, quando la sua terra venne ferita e distrutta dal tragico terremoto del 1908, si spese anima e corpo tra le macerie delle case, che in un attimo, sbriciolatesi per le onde sismiche, uccisero tra le 90.000 e le 120.000 persone. Il giovane Nicola passava intere giornate a cercare qualche sopravvissuto, a scavare con pale e picconi, ma anche a mani nude, unendo la sua opera di soccorso a quella di tanti altri concittadini, soldati, marinai, semplice gente comune. Questo suo spendersi gratuitamente non passò inosservato ed una volta finita l’emergenza, le autorità locali vollero premiare questo giovane ragazzo conferendogli la Medaglia di Bronzo di Benemerenza. Ma fu dopo gli studi liceali terminati a Viterbo, dove nel frattempo la famiglia si era trasferita, che il vero richiamo verso la propria Patria si fece ancora più forte: nell’ottobre 1911 varcava i cancelli della Scuola Militare di Modena, venendo nominato Sottotenente nel febbraio 1913. Giusto il tempo di raggiungere il reparto di destinazione, il 40° Reggimento Fanteria, che Nicola Pizi si imbarcò alla volta della Libia, dove prese parte alle operazioni di conquista dell’entroterra.

In Libia, il giovane Sottotenente combatté con valore, venendo ferito in battaglia a Bu Chamez. Era l’aprile 1914: mentre il grosso delle fanterie italiane il giorno 9 si portò nei pressi di Zuara, con funzioni diversive per distogliere forze turche dalla cittadina di Zanzur, vero obiettivo dell’azione, alcune aliquote italiane occuparono rapidamente Bu Chamez, sulla cui sommità era presente un fortino, indispensabile per proseguire l’avanzata, tanto che vi venne realizzata in poco tempo una vitale base d’appoggio. Fu il 23 aprile che i Turchi, accortisi della spina nel fianco nel loro schieramento, attaccarono in forze l’avamposto: le truppe italiane ressero l’urto, nonostante le perdite, riuscendo a mettere in fuga gli assalitori. Curatosi la ferita riportata al braccio durante i combattimenti, il Sottotenente Pizi dovette far rientro in Italia, dopo aver contratto una malattia che necessitava di cure più attente. Ma i venti di guerra ormai stavano imperversando in Europa: sebbene il Regno d’Italia rimase, almeno inizialmente, fuori dal nuovo conflitto che fece seguito all’uccisione dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia a Sarajevo, dietro le quinte la macchina bellica italiana si stava in realtà muovendo.

Destinato al 134° Reggimento Fanteria, Brigata Benevento, già il 24 maggio 1915 varcò con i suoi uomini la frontiera, rimanendo acquartierato nei pressi di Aquileia. Assegnato alla 5^ Compagnia del II Battaglione, il Sottotenente Nicola Pizi prese parte alla conquista del Monte Sei Busi: il 134° Reggimento, con alcuni elementi del 14° Fanteria, Brigata Pinerolo, riuscì ad occupare le Quote 111 e 118, quest’ultima poi abbandonata già il 26 luglio per i furiosi contrattacchi austriaci. Durante questi combattimenti, il 134° Reggimento pagherà un alto tributo di sangue, subendo la perdita di quasi mille uomini, tra morti, feriti e dispersi. Un nuovo assalto alla Quota 118 venne tentato il giorno 2 agosto, nonostante il violento fuoco dell’artiglieria. Messosi alla testa del suo Plotone, il Sottotenente Pizi riuscì a conquistare le trincee di prima linea, ingaggiando scontri alla baionetta, sopraffacendo il nemico in numerosi corpo a corpo. Fu nella fase più concitata della battaglia che venne raggiunto da alcuni fendenti, che lo uccisero sul colpo. Quella volta, la Quota 118 rimase in mano nemica. Alla Memoria del Sottotenente Nicola Pizi, il Re Vittorio Emanuele III conferì, motu proprio, la Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Comandante di un plotone diretto al Poggio 118 di M. Sei Busi, precedeva la truppa, e scorto a breve distanza un gruppo di nemici annidati in una buca, senza attendere l’arrivo dei suoi, che da vicino lo seguivano, solo, con magnifico ardimento e valore meraviglioso, si slanciava contro i nemici e a colpi di baionetta li atterrava tutti. Subito dopo, raggiunto dal plotone, lo guidava intrepidamente all’assalto contro un reparto avversario sopraggiungente, sostenendo poi gagliardamente la lotta corpo a corpo, guida ed esempio mirabile ai suoi soldati, finchè nel furore della mischia, dava la giovine, nobilissima vita alla Patria. Monte Sei Busi, 22 agosto 1915″.