Il Gemma e l’Usodimare. Due casi di fuoco amico

SMG GemmaLe guerre si vincono per la preparazione militare, per l’efficienza delle truppe e per la supremazia delle armi. Ma, spesso, un ruolo importante lo giocano le informazioni: celare le proprie e scoprire quelle del nemico, infatti, sono diventati i principali compiti di un buon servizio informazioni. Purtroppo, però, il troppo segreto e il troppo riserbo ha portato a gravi conseguenze per gli eserciti: la paura di essere intercettati può obbligare a non diramare informazioni ritenute di vitale importanza, causando al contempo gravi episodi di fuoco amico. E la Regia Marina, nel corso del secondo conflitto mondiale, pagò a caro prezzo questa mancanza di informazioni, perdendo in due distinti episodi un Sommergibile, il Gemma, e un Cacciatorpediniere, l’Antoniotto Usodimare. Varato alla fine del maggio 1936, il Gemma, dopo alcune infruttuose prove nel Mar Rosso presso la base di Massaua per testarne le capacità nei mari caldi, fece ritorno in Mar Mediterraneo, assegnato alla base di La Spezia. Affidato al comando del Tenente di Vascello Guido Cordero Lanza di Montezemolo, allo scoppio delle ostilità nel giugno 1940 venne destinato ad operare nel Mediterraneo Orientale, compiendo al largo di Sollum e di Creta varie missioni di tipo offensivo ed esplorativo senza, però, individuare naviglio nemico. Nonostante gli esiti negativi, il Comandante Cordero Lanza di Montezemolo mise in luce buone doti di comando, venendo promosso al grado superiore di Capitano di Corvetta e guadagnandosi una Croce di Guerra al Valor Militare: “Comandante di sommergibile, eseguiva ripetute missioni di guerra, dando costante prova di aggressività e di spirito di decisione. Mar Mediterraneo, giugno-settembre 1940”. E poi venne la quarta missione di guerra. Partito dall’Isola di Lero il 30 settembre 1940 assieme ad altri due sommergibili italiani, il Tricheco e l’Ametista, il Gemma si portò, sempre agli ordini del Capitano di Corvetta Guido Cordero Lanza di Montezemolo, nella zona d’agguato assegnata, presso il Canale di Caso, nell’Egeo Meridionale.

SMG GemmaOtto giorni dopo, il relitto del Sommergibile giaceva sul fondo marino, sventrato dall’esplosione di due siluri che resero vano ogni tentativo di messa in salvo dell’equipaggio. Alla Memoria del Comandante, venne conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Comandante di Sommergibile, in dure missioni di guerra dava prova di serenità e di coraggio, finché nell’adempimento del proprio dovere cadeva combattendo, sacrificando con estrema dedizione la propria esistenza alla Patria. Mediterraneo Orientale, 10 giugno 1940-8 ottobre 1940”. Era accaduto che, nelle parole dello storico navale Giorgio Giorgerini, il Gemma “fu affondato alle 01.21 dell’8 con la perdita di tutto l’equipaggio, silurato per errore dal Tricheco che, non essendo al corrente, come pure il Gemma, dei rispettivi movimenti, lo scambiò per un battello avversario”. Questo incredibile caso di fuoco amico era dovuto, principalmente, ad errori di comunicazioni, informazioni non diramate per tempo, lentezza nel trasmettere ordini. E in guerra, questi errori, possono risultare fatali, causando la morte di tutti e quarantaquattro i membri dell’equipaggio. La missione iniziata il 30 settembre, infatti, fu segnata fin dall’inizio da grossa confusione: inizialmente, i tre sommergibili sarebbero dovuti rientrare alla base la sera del 9 ottobre. Invece, in pochi giorni furono diramati una serie successiva di ordini, di spostamenti e di rientri anticipati che furono alla base della tragedia. L’Ammiraglio Teucle Meneghini così ha ricostruito gli eventi: “Il 3 ottobre il Comando dell’Egeo, dal quale dipendevano per l’impiego i sommergibili del gruppo di Lero, ordinava al Gemma, tramite Supermarina, di spostarsi passando a nord di Zafrana. Tre giorni dopo, il 6 ottobre, lo stesso comando indirizzò un altro messaggio telecifrato, sempre tramite Supermarina, con il quale ordinava al Gemma di rientrare subito alla base. Questo cifrato non venne ritrasmesso da Supermarina all’unità in mare per un fatale disservizio, come risultò chiaramente dalla relazione della commissione d’inchiesta incaricata di ricercare le cause che avevano portato alla perdita del sommergibile”. Pertanto, quando il Capitano di Corvetta Alberto Avogadro di Cerrione, Comandante del Tricheco, avvistò dal suo periscopio l’inconfondibile sagoma di un sommergibile ritenuto sconosciuto, non avendo ricevuto alcuna informazione sul transito di battelli italiani, diede ordine di lanciare due siluri. Pochi istanti dopo, le alte colonne d’acqua causate dalla detonazione, fecero inabissare rapidamente ciò che ormai restava del Gemma: poco dopo, al rientro presso la base di partenza, la gioia di aver affondato un sommergibile nemico, lasciò presto il posto, nel Comandante Avogadro di Cerrione e negli uomini d’equipaggio del Tricheco, il dolore la profonda rassegnazione di aver ucciso degli amici e dei fratelli.

UsodimareNel suo diario personale, il Maresciallo Ugo Cavallero, Capo di Stato Maggior Generale, scriveva laconico in data 9 giugno 1942: “Abbiamo perduto un Cacciatorpediniere”. E quella nave persa era l’Antoniotto Usodimare, spezzatosi in due e inabissatosi in appena cinque minuti al largo di Capo Bon, promontorio della Tunisia. Morirono in 141 in quella tragedia: tra i naufraghi recuperati, vi fu anche il Capitano di Fregata Luigi Merini, valente ufficiale già distintosi in precedenti missioni, durante le quali venne decorato per due volte al Valor Militare. Ripescato su una zattera dalle unità di soccorso, il Comandante Merini prodigò tutto sé stesso per coordinare i soccorsi, salvando così da morte certa numerosi membri del suo equipaggio. Per questa sua opera, venne insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Comandante di Cacciatorpediniere di scorta a convoglio, colpito e rapidamente affondato per offesa subacquea nemica, si prodigava durante la permanenza in mare per il salvataggio del personale che faceva imbarcare su una motolancia di un’unità venuta in soccorso. Recuperato il mattino successivo su una silurante, insieme agli altri naufraghi della zattera, provvedeva con coraggio ed elevato senso di abnegazione al rastrellamento della zona, onde porre in salvo tutta la gente ancora in mare. Mediterraneo Centrale, 8 giugno 1942”. Purtroppo, però, l’offesa subacquea citata nella motivazione dell’onorificenza conferita non era nemica, bensì amica. Il Cacciatorpediniere Usodimare, infatti, era salpato la notte dell’8 giugno 1942 dal Porto di Napoli assieme alla Motonave Vettor Pisani, carica di rifornimenti diretti a Tripoli. Prendeva parte alla scorta anche il Caccia Premuda. Poche ore dopo, a questo piccolo convoglio si ricongiunsero anche le Torpediniere Lince e Circe e la Motonave Sestriere. Appena doppiato Capo Bon, non informato da Supermarina del transito del convoglio, il Tenente di Vascello Sergio Puccini avvistò dal periscopio del Sommergibile Alagi le sagome inconfondibili delle navi: per di più, il Premuda, ex nave jugoslava di costruzione inglese, ingannò ulteriormente il Comandante del battello italiano essendo molto simile, come forma ad unità leggere della Royal Navy.

SMG AlagiAssunta la posizione di attacco, alle 21.23 un siluro dell’Alagi colpiva al centro l’Usodimare, spezzandolo a metà e non lasciando scampo ad oltre un centinaio di marinai imbarcati. Tra coloro che trovarono la morte nell’unico episodio di fuoco amico che coinvolse un sommergibile ed un cacciatorpediniere italiano, il Capitano di Corvetta Aldobrando De Paulis, Comandante in Seconda dell’unità colpita, che scomparve a bordo della sua nave, venendo poi insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla Memoria: “Comandante in Seconda di Cacciatorpediniere, di scorta a convoglio che, irrimediabilmente colpito da offesa subacquea, affondava rapidamente, rendendo vano ogni provvedimento atto a salvare l’unità e il suo equipaggio, scompariva con la nave, al cui potenziamento aveva costantemente dedicata la sua opera, nell’adempimento generoso del suo dovere. Mediterraneo Centrale, 8 giugno 1942”. Scrisse l’Ammiraglio Meneghini: “Poco dopo, da un marconigramma del Sommergibile Alagi, che dava notizia di aver avvistato una formazione navale e di aver lanciato contro tale formazione una salva di siluri con esito positivo, sia Supermarina, sia le unità in mare comprendevano che il siluro che aveva affondato l’Usodimare era stato lanciato da un sommergibile”. Ancora una volta, la mancanza di informazioni aveva determinato una nuova tragedia tra gli equipaggi delle navi e dei sommergibili della Regia Marina.

La storia dello USS William Porter

USS William PorterSul finire dell’anno di guerra 1943, dal 28 novembre al 1° dicembre, si tenne a Teheran una conferenza tra i tre leader alleati: Winston Churchill, Josif Stalin e Franklin Delano Roosevelt. Una conferenza che segnò punti importanti per la strategia degli Alleati e sulle future mosse che di li a breve avrebbero dovuto prendere per battere definitivamente l’Asse. Eppure questa conferenza avrebbe potuto prendere una piega ben diversa, a causa di una serie di eventi letteralmente tragicomici e che ebbero per protagonista una nave della United States Navy. Se, infatti, il Premier britannico e il dittatore sovietico raggiunsero la capitale della Persia per via aerea, il Presidente americano fu costretto ad affrontare buona parte del viaggio via mare a bordo della Corazzata Iowa: una poderosa scorta venne costituita e tra le unità navali incaricate di garantire la sicurezza di Roosevelt vi era anche lo USS William Porter, Cacciatorpediniere della Classe Fletcher, intitolato alla memoria dell’Ammiraglio che nella Guerra di Secessione comandò la Cannoniera USS Essex. Il 12 novembre 1943 salpò dal Porto di Norfolk, in Virginia: quando il Comandante Wilfred Walter diede ordine di mettere in moto le macchine, le ancore non erano state salpate e la catena di una di esse, aggrovigliandosi alle navi e imbarcazioni presenti in rada, danneggiò gravemente un cacciatorpediniere e quasi fece crollare l’intero molo. Seppur nell’imbarazzo generale, lo USS William Porter il giorno seguente raggiunse la Corazzata Iowa e si unì alla scorta. Improvvisamente, un’esplosione subacquea fece assumere i posti di combattimento: pensando di essere sotto attacco, in Oceano Atlantico, da parte di un U-boote tedesco, le navi iniziarono le manovre evasive, mentre l’Iowa, con il Presidente Roosevelt a bordo, incrementò la velocità per uscire dalla portata degli eventuali siluri nemici. In realtà, nessun sommergibile della Kriegsmarine aveva intercettato e attaccato le navi: da bordo del Caccia americano, era caduta in mare una bomba subacquea che, raggiunta la profondità a cui era tarata, era deflagrata.

Conferenza di TeheranCon la formazione di nuovo riunita, la navigazione riprese: il 14 novembre, però, avvenne il fatto che avrebbe potuto cambiare l’andamento della Conferenza di Teheran. Durante un addestramento mirato alla protezione da eventuali attacchi aerei, durante il quale vennero rilasciati in aria alcuni palloni, i cannoni dell’Iowa e del Porter aprirono il fuoco, abbattendone un gran numero. Il Comandante Walter, anche per rimediare a quanto successo con la carica subacquea, volle testare il grado di addestramento del suo equipaggio alla lotta antisommergibile: venne simulato il lancio di due siluri, ma quando fu simulato il terzo, venne lanciata veramente un’arma subacquea, armata e diretta contro l’Iowa. Rompendo il silenzio radio che era stato imposto alla flotta in navigazione, furono tentate manovre evasive per fuggire al fuoco amico che, anche se involontario, venne diretto contro il Presidente Roosevelt. Passarono minuti interminabili, alla fine dei quali il siluro mancò la Corazzata perdendosi nell’Oceano. Ma a questo punto era troppo: allo USS William Porter fu ordinato di fare rotta verso le Isole Bermuda, con l’intero equipaggio che dovette considerarsi agli arresti e consegnato a bordo. Il Silurista Lawton Dawson, responsabile dei tubi di lancio, venne in un primo momento condannato al carcere, ma solo grazie all’intercessione diretta di Roosevelt stesso venne reintegrato in Marina. Dopo questi incidenti imbarazzanti, il Cacciatorpediniere William Porter venne assegnato alla Flotta del Pacifico e aggregato alla Task Force 94 operante nelle Isole Aleutine: il 29 dicembre 1943 faceva il suo ingresso a Dutch Harbor, svolgendo da quel momento numerose missioni di scorta e di addestramento combinato con altre unità navali. Nel frattempo, il 30 maggio 1944 il Capitano di Fregata Walter cedeva il comando dello USS William Porter al Comandante Charles Keyes.

Affondamento PorterCon il nuovo comando, giunsero nuovi incarichi. Dalle Aleutine, dopo una sosta a San Francisco e qualche piccola riparazione, lo USS Porter fu nuovamente assegnato alla campagna navale nelle Filippine, dove prese parte, tra la metà di ottobre e il dicembre 1944 alla Battaglia di Leyte: il 21 dicembre, durante una scorta ad un convoglio da Leyte a Mindoro, i cannonieri di bordo risposero prontamente all’attacco di una formazione aerea giapponese, riuscendo ad abbattere, molto probabilmente, un velivolo. E poi venne la dura prova di Okinawa: da aprile al giugno 1945 le forze americane furono impegnate in una delle più sanguinose campagne contro l’Impero Giapponese. Il 10 giugno, durante uno degli ultimi tentativi dei Kamikaze di infliggere perdite alla United States Navy, lo USS Porter venne colpito alle 08.15 lungo la linea di galleggiamento da un Bombardiere Aichi D3A Val imbottito di esplosivo: per tre lunghe ore l’equipaggio del Cacciatorpediniere lottò per impedire la perdita della nave, ma lo squarcio causato dall’esplosione aveva ormai riversato all’interno tonnellate di acqua di mare. Sbandato irrimediabilmente, iniziò lentamente ad affondare: miracolosamente, a bordo si erano registrati solo una sessantina di feriti e nessun morto, così che l’intero equipaggio poté raggiungere le scialuppe di salvataggio ed essere tratto in salvo. Durante le operazioni di soccorso ai naufraghi, di distinse particolarmente il Tenente Richard Miles McCool, imbarcato sulla Nave di Supporto Anfibio USS LCS 3-122: sarà insignito della Medaglia d’Onore del Congresso.

Il Carabiniere Scapaccino e l’invasione della Savoia del febbraio 1834

Giovanni Battista ScapaccinoSi chiamava Giovanni Battista Scapaccino ed era un Carabiniere Reale del Regno di Sardegna: allora la Savoia non era ancora un possedimento francese, l’Italia non esisteva ancora e Giuseppe Mazzini e i suoi seguaci, sebbene propugnatori dell’idea di unificare la penisola, considerati alla stregua di terroristi e ricercati. Erano gli Anni Trenta dell’Ottocento e appena un decennio prima, i moti insurrezionali del 1820-1821 avevano per la prima volta messo in discussione quella Restaurazione che aveva fatto seguito alla definitiva cacciata di Napoleone Bonaparte e al Congresso di Vienna. Nel febbraio 1834 un tentativo di rovesciare il Re Vittorio Emanuele I venne così tentato da alcuni fuoriusciti mazziniani, che accusavano il Sovrano di non avere, tra le altre cose, concesso una costituzione di stampo liberale, ma di avere accentrato ancora di più su di sé i poteri, dando vita ad un assolutismo che non avrebbe ammesso opposizioni. La rivolta, che avrebbe dovuto assumere la forma di una vera e propria invasione della Savoia, avrebbe visto anche l’azione di Giuseppe Garibaldi a Genova, che avrebbe dovuto sobillare e organizzare una rivolta in seno alla Flotta Sabauda e unirla così agli insorti che sarebbero giunti dalla Francia. Finanziata da Giuseppe Mazzini e dalla Principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, i rivoluzionari erano guidati dal Generale Gerolamo Ramorino.

Morte ScapaccinoE il 3 febbraio 1834 il tentativo ebbe luogo. In realtà, le truppe piemontesi si aspettavano già da tempo l’invasione, grazie ad alcuni rapporti informativi pervenuti al di là del confine. In effetti, il Generale Ramorino si rese conto fin da subito dell’impossibilità della riuscita del piano, sia dell’invasione della Savoia, sia della rivolta genovese di Garibaldi. Diede così ordine alle sue forze di ritirarsi: tutte le colonne tornarono sui loro passi, tranne un centinaio di armati che, varcato il confine, occuparono la cittadina di Les Echelles, prendendo d’assalto la locale stazione dei Carabinieri Reali. Nel frattempo, il Carabiniere Giovanni Scapaccino stava rientrando a cavallo dalla vicina Chambery, dove si era recato per servizio. Giunto al suo comando, si trovò i fucili puntati e, alle richieste di rinnegare il giuramento di lealtà fatto al Re in favore della Repubblica, afferrò la sua pistola, ma una scarica di colpi lo raggiunse in pieno petto, uccidendolo. Venuto a conoscenza dell’occupazione di Les Echelles, il Tenente Colonnello Adriano D’Onnier, Comandante del 16° Reggimento Fanteria, radunò una quarantina di soldati e Carabinieri Reali: piombando sui rivoltosi da un’altura circostante, dopo un breve conflitto a fuoco, li ricacciò al di là del confine, dove si rifugiarono in territorio francese.

Fucilazione RamorinoIl 12 febbraio, Vittorio Emanuele I insigniva Giovanni Battista Scapaccino, il “suo” Carabiniere che non volle rinnegarlo neanche di fronte ai fucili puntati, la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Per aver preferito farsi uccidere dai fuorusciti nelle mani dei quali era caduto piuttosto che gridare Viva la Repubblica, a cui volevano costringerlo, gridando invece Viva il Re! Pont des Echelles, Savoia, 3 febbraio 1834″. Stesso prestigioso riconoscimento venne conferito al Tenente Colonnello D’Onnier, per essere riuscito con i suoi uomini a far desistere gli armati a continuare la rivolta: “Per essersi spontaneamente messo alla testa del distaccamento che si portò contro i fuorusciti presso il ponte des Echelles e, mediante le sue buone disposizioni e valore dimostrato,obbligato i medesimi ad abbandonare il territorio sardo. 3 febbraio 1834″. E una fine ingloriosa la farà invece Gerolamo Ramorino: dopo il fallimento dei moti mazziniani, accettò di servire nell’Esercito Sabaudo ma, accusato di aver determinato la disfatta di Novara il 23 marzo 1849, fu processato da una Corte Marziale a Torino e da questa ritenuto colpevole. Condannato a morte, il 22 maggio successivo si presentò dinanzi al plotone d’esecuzione, che lui stesso volle comandare impartendo gli ordini per fare fuoco. Dalle testimonianze, sembra che poco prima che i soldati piemontesi premessero il grilletto, abbia gridato: “Viva l’Italia!”.

Il Sergente Luigi Bevilacqua e l’Arma del Genio sul Basso Piave

Luigi BevilacquaLuigi Bevilacqua apparteneva a quell’Arma del Genio che si rese protagonista di grandi opere nel corso del primo conflitto mondiale. Furono gli uomini del Genio, gli Zappatori e i Minatori, che scavarono nella roccia, in poco meno di nove mesi, tra il febbraio e il novembre 1917, quelle cinquantadue gallerie che avrebbero messo al riparo dai tiri dell’artiglieria austro-ungarica i rifornimenti e i soldati che percorrevano le strette mulattiere lungo le pendici del Monte Pasubio. E furono sempre gli uomini del Genio, quest’arma così particolare del Regio Esercito prima e dell’Esercito Italiano poi, chiamata ad assolvere compiti di primaria importanza a livello logistico, che costruirono quel celebre ponte di barche che permise di guadare il Fiume Piave nei giorni dell’offensiva finale. E tra quanti si distinsero, in qualità di Geniere e all’occorrenza anche di soldato, pronto a rispondere agli attacchi nemici balzando fuori dalle trincee, vi fu senza dubbio Luigi Bevilacqua, che cadrà alla fine del febbraio 1918 sul fronte del Basso Piave, là su quelle stesse rive che vedranno scritte le pagine di puro eroismo delle Fiamme Gialle. Era originario di un piccolo paese in provincia di Udine ma era cresciuto nella città di Trieste: Luigi Bevilacqua, pertanto, sentì come un dovere l’essere arruolato nel Regio Esercito Italiano, lui che proveniva e che era cresciuto proprio nella città irredenta.

Strada delle 52 Gallerie (62)Con il grado di Caporale prese parte nel luglio 1915 ai combattimenti attorno al Monte Piana, dopo essere stato assegnato al 5° Reggimento Genio Minatori: con tale unità contribuì a più riprese a rinforzare le numerose posizioni italiane, le trincee lungo il Monte San Michele e il tristemente celebre “trincerone” delle Frasche, che vide versare il sangue di tanti Dimonios della Brigata Sassari. Fu nell’estate del secondo anno di guerra, che il neo promosso Sergente Luigi Bevilacqua, promozione avuta per meriti di guerra, poté dimostrare tutto il suo valore: non solo si prodigò per rendere sicure, con i suoi Genieri, le protezioni dei fanti in trincea, ma fu lui stesso a scendere in battaglia, prendendo parte a più riprese ai furiosi combattimenti che a metà agosto porteranno alla conquista della città di Gorizia: proprio durante la battaglia finale per la città, il 16 agosto rimase gravemente ferito alla testa, passando i mesi successivi in un ospedale per riprendersi dal trauma. Una volta ristabilitosi, però, volle nuovamente essere in linea, prodigandosi, dopo la disfatta di Caporetto e lo stabilimento della nuova linea di resistenza sul Piave, a distruggere tutti i ponti che sarebbero stati utilizzati dal nemico.

Ponte di barche sull'IsonzoIl 24 febbraio 1918, il Sergente Luigi Bevilacqua stava ripristinando alcune fortificazioni italiane nei pressi di San Donà di Piave. Improvvisamente, uno sparò rieccheggiò lungo la linea del fronte: un unico colpo sparato da un cecchino austriaco lo uccideva all’istante. Si meritò la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Partito volontario per la zona di operazione allo scoppio delle ostilità, dette costante fulgido esempio delle più elette virtù militari. Guastatore volontario del reticolato nemico a Monte Piana (luglio 1915); collaboratore preziosissimo alla costruzione dell’osservatorio avanzato del San Michele (novembre 1915); minatore di eccezionale tenacia al cavernone di Quota 219 ove, allo scoperto, tra il grandinare di proiettili, aprì con mazzetta e pistoletto lo sbocco stabilito, dopo che il perforatore era stato distrutto da una granata avversaria (19 agosto 1917); lavoratore e fante all’occorrenza, tutta la sua opera fu di abilità e di ardimento. Fiero del proprio compito, cui prodigò ogni sua energia, due volte ferito (il 16 agosto 1916 a Gorizia, il 6 settembre 1917 a Quota 241), due volte rinunciò di essere allontanato dal suo posto. Capo Squadra incaricato dell’assestamento di un’interruzione, sotto il fuoco e i tentativi di irruzione dell’avversario, incitò i suoi uomini e condusse a termine il proprio compito, segnalandosi come sempre e dando prova di perizia e di coraggio (Isonzo, 28 ottobre 1917). Nella sfida continua, tenace al pericolo, cadde da valoroso mentre, in una zona molto avanzata, apprestava nuove e valide difese. Basso Piave, 24 febbraio 1918”.

Il Generale Jakubovskij e la crisi di Berlino dell’ottobre 1961

Ivan Ignatevic JakubovskijIl 25 ottobre 1961, quando una decina di Carri Armati M48 Patton mossero in direzione del Check Point Charlie, fermandosi a poco più di cinquanta metri dalla zona sovietica di Berlino, la Guerra Fredda raggiunse nuovamente un livello di tensione che avrebbe lasciato presagire una guerra totale tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ed uno dei protagonisti di quella che passerà alla storia come la Crisi di Berlino fu anche un Eroe della Grande Guerra Patriottica, combattendo nella celebre 3ª Armata Carri della Guardia del Generale Pavel Rybalko, uno dei più abili strateghi della guerra corazzata: Ivan Ignatevic Jakubovskij. Di umili origini contadine, lasciò ben presto la dura vita dei campi per entrare nell’Armata Rossa dove, iniziando la carriera militare in un reggimento di fucilieri, ben prestò si avvicinò alla nuova specialità delle truppe corazzate, con cui raggiungerà il grado di Maresciallo dell’Unione Sovietica e comandando, nel corso degli Anni Settanta, le forze del Patto di Varsavia. Già all’indomani dell’inizio delle ostilità con la Polonia a inizio settembre 1939, Ivan Jakubovskij, con il grado di Capitano, guidò una compagnia di carri armati nel settore bielorusso e finlandese. E quando la Germania di Adolf Hitler, il 22 giugno 1941, diede inizio all’Operazione Barbarossa, i suoi carri, con lui in testa, furono sempre gli ultimi a ritirarsi dai campi di battaglia: in luglio, al seguito del 20° Corpo Meccanizzato, si distinse nell’assedio di Mogilev, al termine del quale venne insignito del prestigioso Ordine della Bandiera Rossa (alla fine della Seconda Guerra Mondiale lo avrà ricevuto per ben tre volte).

Carri di JakubovskijDa questo momento, la carriera di Jakubovskij divenne rapida: dapprima Vice Comandante della 121ª Brigata Carri, poi Comandante, dal marzo 1942, della 91ª Brigata. E da ottimo stratega delle forze corazzate quale era, le seguì sempre in battaglia. Promosso in seguito Maggiore e Colonnello, Ivan Jakubovskij fu sempre presente là dove la sua Unione Sovietica aveva più bisogno: impegnato nella battaglia difensiva nel Donbass e in seguito a Stalingrado, contribuì con le sue forze alla capitolazione della 6ª Armata del Generale von Paulus. E poi vennero i titoli di Eroe dell’Unione Sovietica, il massimo riconoscimento tributabile dal Governo di Mosca: durante l’offensiva di Kiev, nei pressi di Fastov, vitale nodo stradale, la 91ª Brigata, inquadrata nella 3ª Armata Carri della Guardia, si rese protagonista della distruzione di trenta carri armati nemici, risultando così determinate, a metà del novembre 1943, alla vittoria sovietica e alla liberazione della città ucraina. Lo ricevette anche una seconda, il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica: tra il 19 luglio e il 29 agosto 1944, le sue unità presero parte all’attacco portato alle truppe tedesche stanziate a Leopoli, agendo con energia con i suoi carri e costringendole ad una ritirata di oltre trecento chilometri.

Crisi di BerlinoLa guerra ormai era irrimediabilmente persa per la Germania e anche la strenua difesa di Berlino, con i combattimenti che si svolgevano strada per strada, rappresentò per Jakubovskij la dimostrazione della versatilità del mezzo corazzato, largamente impiegato tra le strette vie della capitale tedesca. La fine della guerra lo trovò a Leningrado, quale Vice Comandante delle Forze Corazzate, per poi tornare in Germania, nella parte sovietica, dove assunse l’incarico di  Vice Comandante in Capo del Gruppo delle forze sovietiche in Germania. E fu qua che la crisi dell’ottobre 1961 lo colse: e anche in questo frangente, sebbene la crisi non sfociò in una battaglia, Jakubovskij dimostrò ancora una volta lucidità e soprattutto sangue freddo, in una contrapposizione in cui qualsiasi passo troppo azzardato avrebbe segnato il punto di non ritorno per l’intera umanità. Alle dirette dipendenze del Maresciallo Ivan Konev, mantenne la determinazione necessaria per far desistere le forze americane dal continuare il confronto diretto, mediando direttamente al Check Point Charlie con le rispettive controparti il graduale ritiro dei carri armati del Generale Lucius Clay. La massima crisi venne raggiunta due giorni dopo l’azione americana: il 27 ottobre, dopo il benestare di Chruscev, dieci Carri T55 mossero contro i Patton, fermandosi ad una decina di metri e puntando contro i cannoni, pronti a fare fuoco. Fu solo grazie alla mediazioni che lo scontro venne evitato e per la tarda mattina del 28, la situazione tornò lentamente alla calma. In seguito alla crisi, Jakubovskij assunse l’incarico, dal 12 aprile 1967 fino al giorno della sua morte, avvenuta per cause naturali il 30 novembre 1976, di Comandante Supremo del Patto di Varsavia.

Il Sottotenente Adalberto Orlando e l’assedio di Tobruk

Adalberto OrlandoCon undici Medaglie d’Oro, 142 d’Argento, 202 di Bronzo e 55 Croci di Guerra al Valor Militare al proprio personale, a cui si aggiunsero cinque Ordini Militari di Savoia, l’89° Reggimento Fanteria risulterà essere uno dei reparti più decorati, da quando venne costituito nel lontano 1884 fino alla data del suo scioglimento, avvenuta nel 1991, a seguito delle varie riforme che hanno interessato nei decenni l’Esercito Italiano. Copertosi di gloria fin dalla Battaglia di Adua del marzo 1896, prestò la sua opera di soccorso alle popolazioni di Messina e Reggio Calabria devastate dal violento sisma del 1908, per approdare in terra libica tra il 1911 e il 1912. Nel primo conflitto mondiale venne schierato sull’Altipiano di Asiago per poi terminare il conflitto nelle Argonne, zona collinare nel nord-est della Francia. E con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’89° Fanteria, inquadrato nella Divisione Brescia, venne schierato sul fronte delle Alpi Occidentali contro la Francia: tra gli Ufficiali richiamati vi era anche Adalberto Orlando, originario della provincia di Taranto e prossimo al conseguimento della Laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Bari. Inizialmente destinato al 39° Reggimento appena chiamato alle armi nel 1937, espletò il servizio militare obbligatorio e, nonostante la possibilità di interrompere la ferma per termine gli studi per il titolo accademico, decise di rimanere alle armi. Trasferito all’89° Reggimento, nel giugno 1940, quando aveva conseguito il grado di Sottotenente, Adalberto Orlando fu destinato al comando della 5a Compagnia Controcarri da 47/32 prendendo parte alle operazioni in territorio francese.

Assedio di TobrukE quando l’intero reparto venne destinato all’Africa Settentrionale, dopo l’armistizio con il Governo di Parigi, anche il Sottotenente Orlando lo seguì: le forze italiane, sebbene superiori dal punto di vista numerico, iniziarono fin dalla dichiarazione di guerra la penetrazione in territorio egiziano, per oltre cento chilometri, raggiungendo Sidi el Barrani. Il 9 dicembre 1940 il Regio Esercito subiva la controffensiva britannica: come ricorda lo storico Carlo De Risio nel libro Generali, servizi segreti e Fascismo, “cadde Sidi el Barrani, poi caddero Halfaya e Bardia. La Marmarica era aperta all’invasione. Fu la volta di Tobruk e, in rapida successione, di tutti i centri della Cirenaica. A Beda Fomm avvenne l’ultimo scontro”. Gli Inglesi, proseguendo l’avanzata, raggiunsero la città di Tobruk il 21 gennaio 1941 e si prepararono a reggere l’urto delle forze dell’Asse che si sarebbero riorganizzate per occupare nuovamente la piazzaforte. Nel frattempo, giunsero in Africa Settentrionale i primi contingenti tedeschi che, sotto il comando del Feldmaresciallo Erwin Rommel, ripresero l’iniziativa. Anche la Divisione Brescia, con l’89° Fanteria, dopo una iniziale ritirata all’indietro, riprese il contrattacco, attestandosi inizialmente lungo la stretta di El Agheila e, tra il marzo e l’aprile 1941, avanzò su Marsa el Brega e Agedabia. Adesso, anche per la 5a Compagnia del Sottotenente Aldaberto Orlando venne il momento di prendere parte all’assedio di Tobruk, raggiunta il 12 aprile. Iniziò un lungo assedio, durante il quale, per quasi otto, estenuanti, mesi i reparti della Divisione tentarono inutilmente di sfondare le difese inglesi. Fu in questo frangente che, il 22 aprile 1941, si compì il destinato di Orlando: durante un contrattacco nemico, sebbene ferito, continuava a dirigere il fuoco del pezzo d’artiglieria, fino a quando non cadeva, colpito mortalmente, da una raffica di mitragliatrice.

IMG_20180403_184858Durante quei giorni, scriveva il Corriere della Sera nell’edizione del 15 aprile 1941, quando iniziò il contrattacco dell’Asse: “Le forze corazzate italo-tedesche hanno attraversato ieri la frontiera libica e sono entrate in Egitto in una furiosa avanzata che ha virtualmente spazzato via le conquiste britanniche dell’Africa del Nord. E’ stato ammesso che le forze corazzate italo-tedesche, dopo un’avanzata di 500 miglia nel deserto in sole tre settimane, hanno occupato il Porto di Bardia ed hanno attraversato la frontiera per dare battaglia ai Britannici nella zona egiziana di Sollum”. Alla Memoria del Sottotenente Adalberto Orlando venne così conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria: “Ufficiale reduce dal fronte occidentale, rinunciava al congedo spettantegli quale laureando in medicina, per seguire il suo reparto in Africa Settentrionale. Comandante di reparto isolato sottoposto ad intenso fuoco di artiglieria e mitragliatrici dell’avversario che cagionava perdite rilevanti, fronteggiava con calma la difficile situazione, efficacemente prodigandosi, nella tregua del combattimento, nel soccorso dei feriti ed operando l’amputazione di un braccio ad uno di essi colpito più gravemente. Attaccato dal nemico con mezzi meccanizzati e nuclei di mitraglieri, reagiva all’offesa rimuovendo dalla postazione un pezzo anticarro ed effettuando il tiro allo scoperto contro carri armati nemici avanzanti. Ferito persisteva valorosamente nell’azione di fuoco, fino a quando fulminato da raffica di mitragliatrice dell’avversario si abbatteva esanime sul pezzo. Esempio di alto spirito di sacrificio, assoluta dedizione al dovere ed eroismo. Zona di Tobruk, Africa Settentrionale, 22 aprile 1941″. Oggi una lapide in memoria del suo sacrificio si trova affissa sulla facciata principale del Comune di Conversano.